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Questo articolo è stato pubblicato il 22 novembre 2014 alle ore 18:31.
L'ultima modifica è del 22 novembre 2014 alle ore 18:42.

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(Afp)(Afp)

New York - Si è spento come una lampadina bruciala. Le tante lampadine bruciate che condannano al buio il complesso di case popolari di Brooklyn Louis H. Pink, dove una giovane recluta della polizia in pattuglia ha estratto troppo in fretta la sua pistola d'ordinanza e troppo in fretta sparato a un'ombra. Un'ombra che barcolla e si accascia due piani più sotto. L'ombra di Akai Gurley, 28 anni, che stanco di aspettare un ascensore che non arrivava mai aveva scelto le scale. Poi la corsa frenetica all'ospedale, anch'essa troppo tardi per salvare una vita.

Vittima del tutto innocente, hanno ammesso il capo della polizia Bill Bratton e il sindaco Bill De Blasio, che ha già promesso di rivedere la strategie degli agenti. Vittima di quella tossica miscela di degrado urbano, povertà, inadeguato addestramento degli agenti e lunga storia di aggressività delle forze di sicurezza nei confronti delle minoranze che l'America, anche quella che ha eletto Barack Obama presidente, fatica a scrollarsi di dosso.

Una tragedia, senza dubbio, sulla quale è in corso un'inchiesta e si sono moltiplicate richieste di fare chiarezza e giustizia. Ma l'ombra di Gurley, morto giovedì sera, oggi si allunga da New York fino a Ferguson, il sobborgo di St. Louis in Missouri dove - da un'ora all'altra, da un giorno all'altro - è attesa la decisione di un Gran Giurì sull'uccisione di un altro afroamericano disarmato. Un'uccisione diventata, questa, ormai il simbolo di drammi evitabili e che invece spesso appaiono tuttora ineluttabili. Prova, a torto o a ragione, di quanto la “color line” razziale denunciata da Fredrick Douglass a fine Ottocento resti un dilemma irrisolto.

La giuria qui deve decidere se incriminare o meno Darren Wilson, il poliziotto che tre mesi fa sparò a un ragazzo disarmato in strada, lasciando il cadavere sul selciato per ore. Se i colpi, numerosi, che hanno tolto la vita al diciottenne Michael Brown sono stati il frutto perverso di un razzismo esplicito o implicito - l'accusa dei tanti dimostranti che per settimane hanno protestato la discriminazione delle autorita' della cittadina, in mano ai bianchi nonostante la popolazione sia in maggioranza afroamericana - oppure di una colluttazione finita male.

A Ferguson, temendo il peggio, sono scattate settimane di trattative tra autorità e leader locali e delle associazioni per i diritti civili per consentire dimostrazioni ma evitare che degenerino, come accaduto in passato, in nuova violenza. La guardia nazionale del Missouri è stata posta in stato d'allerta. E il governo federale ha inviato cento agenti dell'Fbi per aiutare a tenetere sotto controllo la situazione.

«Se le proteste saranno pacifiche - ha fatto sapere il sindaco di St.Louis Francis Slay - la polizia non sarà aggressiva. Ma se i dimostranti diventeranno minacciosi o violenti, gli agenti risponderanno per proteggere tutti». Nei giorni e settimane successive all'uccisione di Brown, Ferguson era stata ripetutamente scossa da rivolte e scontri con la polizia, con episodi di saccheggio esacerbati dalla risposta criticata a sua volta come eccessiva delle forze dell'ordine.

L'utilizzo indiscriminato di lacrimogeni e mezzi blindati ha anche aperto un dibattito nazionale sulla “militarizzazione” delle polizie locali e sulle armi in dotazione, spesso risultato del trasferimento di arsenali del Pentagono destinati all'impiego in ben altri conflitti, in Iraq e Afghanistan. Alcune chiese e associazioni hanno annunciato ieri che terranno aperti locali per consentire un rifugio sicuro a dimostranti e residenti davanti a nuove escalation della crisi. Il ministro della Giustizia uscente, Eric Holder, e lo stesso Obama hanno invitato alla calma. Perchè, qualunque il verdetto, l'America dovrà ancora a lungo fare i conti con la “color line”, da Ferguson a Brooklyn.

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