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Questo articolo è stato pubblicato il 01 dicembre 2014 alle ore 14:56.
L'ultima modifica è del 01 dicembre 2014 alle ore 15:13.
Da che mondo è mondo, d'inverno in Russia nevica. Ma tali sono i nuvoloni che si sono addensati sul Cremlino, dal crollo del greggio alla crisi ucraina, che quest'anno anche una nevicata di troppo nella regione degli Altai (Siberia) ha scatenato il terrore che il raccolto di grano saraceno potesse risentirne, e con lui i prezzi. Non è da molto tempo che la Russia ha smesso di avere fame, e così è stata corsa agli acquisti. Ansia infondata, presumibilmente: eppure indicativa della delicatezza di questo momento. Se non sarà il grano a scatenare una crisi, le ragioni per preoccuparsi per la tenuta dell'economia russa non mancano.
Per far fronte ai momenti difficili, accanto alle riserve in valuta della Banca centrale, la Russia può contare su quelle di due fondi sovrani gemelli, alimentati dai guadagni di petrolio e gas: il primo fa da cuscinetto al budget, il secondo è nato per garantire le pensioni di una popolazione in rapido invecchiamento. Per questo lo hanno chiamato Fond Nazionalnovo Blagosostojanija: Fondo per il benessere nazionale. Ma ora nasce il dubbio: benessere dei cittadini russi o delle grandi compagnie di Stato?
Di regola, solo una parte degli accantonamenti del fondo può essere investita in progetti infrastrutturali. Ma negli ultimi mesi le priorità sono cambiate: è tempo di sanzioni e di rublo debole. Nell'emergenza, lo Stato ha promesso aiuto a una lunga lista di aziende strategiche per affrontare le scadenze sui debiti con l'estero. Il calo del rublo li ha ingigantiti, mentre le sanzioni hanno limitato l'accesso di banche e compagnie ai mercati internazionali dei capitali, e per raccogliere finanziamenti le alternative sono poche. Tanto più che l'industria dell'energia sconta in contemporanea il calo del petrolio.
Così, tra i grossi nomi che bussano alle porte del Cremlino, il primo della fila è Igor Sechin. La sua Rosneft è il primo produttore russo di petrolio, ma per diventarlo ha accumulato debiti che ora fatica a rispettare. È suo il carico più grosso degli impegni “corporate” in scadenza a fine anno, 32 miliardi di dollari più altri 10 per le banche. E se il Fondo per il welfare ha in cassa 3.700 miliardi di rubli (81,7 miliardi di dollari), Sechin ne chiede ben più della metà, fino a 2.000 miliardi: «Non mi vergogno perché il contributo di Rosneft al bilancio russo è molto consistente».
Per i ministri dell'Economia e delle Finanze la richiesta è esagerata. Ma non saranno loro a decidere: Sechin è uno dei potenti di Russia più vicini a Vladimir Putin ed è su quelli come lui che il presidente si appoggia mentre reagisce al confronto con l'Occidente serrando il controllo dello Stato sull'economia. Ci sarà dunque un gigantesco bailout dell'industria che conta, come durante la crisi del 2008: come allora, per un po' le risorse per sostenerlo non mancano. Ma in qualche modo, il capo di Rosneft ha ragione. L'industria dell'energia garantisce metà delle entrate del governo, tiene in surplus la bilancia dei pagamenti e offre più di un milione di posti di lavoro. Ma è l'unico fronte che offre cifre positive: anche la debolezza del rublo si traduce in vantaggio per chi esporta petrolio e guadagna dollari, mitigando l'impatto del calo del greggio e assicurando più tasse al fisco. E farsi scudo sempre e solo dell'energia e dei grossi progetti statali è il destino di un Paese che non è ancora riuscito a innovarsi e a dare spazio a tutti gli altri potenziali “made in Russia”. Il calo del petrolio e le sanzioni costeranno alla Russia 140 miliardi di dollari l'anno, ammette il Governo. Ma queste sono le due grandi cause esterne delle difficoltà dell'economia. Le altre sono ferite che Mosca si è provocata da sola.
«L'economia stava già rallentando da due anni, da quando Putin è tornato alla presidenza nel 2012», spiega Konstantin Sonin, vicerettore dell'Alta Scuola di Economia di Mosca, uno dei pochi bastioni rimasti di pensiero e ricerca indipendenti. Le analisi degli economisti ripetono che dopo il boom dei primi dieci anni di Putin al potere, la spinta propulsiva – accompagnata dal rialzo del petrolio e confluita in un'esplosione dei consumi – si è esaurita, e ora richiederebbe riforme e modernizzazione nei settori più trascurati, dalla manifattura all'agricoltura, per trovare nuovi margini di crescita e migliorare in competitività. Le ragioni per cui questo non avviene sono ben note: «L'economia ha di fronte istituzioni di Stato arcaiche – elenca Sonin - con tribunali inadeguati, un sistema politico inefficiente ed estremamente corrotto, molto più di quanto dovrebbe in un Paese con questo livello di sviluppo». La creazione di ricchezza si ferma nel momento in cui «chi ha denaro non lo investe perché sa che i contratti non saranno rispettati, le proprietà non saranno protette, i capitali investiti saranno rubati. Ogni cosa è decisa dai politici – conclude Sonin – e ai politici interessa solo tenersi il potere. Così lo sviluppo si blocca».
La prova più evidente della sfiducia è la fuga di denaro dalla Russia, «un problema strutturale – concorda Yves Zlotowski, chief economist di Coface – e non legato alla situazione economica. Gli investitori sono riluttanti a investire nell'economia reale interna soprattutto a causa di un clima non particolarmente rassicurante per il business». Ora i numeri sono moltiplicati dal calo degli investimenti stranieri. Se tutto questo contribuisce ad affondare il rublo, chi fosse determinato a investire sulla crescita malgrado tutto si trova a che fare con tassi di interesse proibitivi perché la Banca centrale, costretta a difendere la moneta e a combattere un'inflazione che si avvicina alle due cifre stando sull'orlo della recessione, li ha alzati quattro volte in pochi mesi, al 9,5%. Anche se la libera iniziativa non fosse scoraggiata a ogni passo, un piccolo imprenditore russo parte da condizioni molto svantaggiate rispetto ai colleghi di altri Paesi.
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