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Questo articolo è stato pubblicato il 04 dicembre 2014 alle ore 07:34.
L'ultima modifica è del 04 dicembre 2014 alle ore 08:42.

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Wilson ha convinto i giurati della sua buona fede raccontando che il 18enne Michael Brown lo ha aggredito “come un demonio”. Che dopo esser stato ferito lo avrebbe caricato all'impazzata, prima che alla fine sei colpi lo abbattessero. Un mostro, uno “Hulk”, al cospetto del quale si è sentito terrorizzato come un bambino di cinque anni. Una descrizione che ha lasciato increduli: Wilson è un uomo di quasi due metri e oltre cento chili, la stessa altezza anche se 35 chili meno di Brown. Difficile immaginarlo fanciullo nelle mani di un orco.

Le contraddizioni nella versione accettata dal Gran Jury, che doveva decidere se esistessero gli estremi per una incriminazione, non finiscono qui. La polizia prima nega e poi afferma che Wilson avesse identificato Brown come sospetto in un furto di sigarette in un negozio. L'imparzialità invocata dal procuratore locale Robert McCulloch nel presentare le prove del caso - già discutibile perché la pubblica accusa ha il compito di chiedere l'incriminazione dopo un'inchiesta - viene smentita dai fatti: i magistrati interrogano con i guanti di velluto Wilson per ore, a volte suggerendogli le risposte adeguate. I testimoni che mettono in dubbio la sua versione vengono trattati con ben altra aggressività. Tutto questo, come gli stereotipi nelle parole di Wilson, è contenuto nei documenti, 70 ore per 60 testimonianze, che la procura ha rilasciato in un gesto di trasparenza ma che potrebbe essersi trasformato in un boomerang. Come le foto a dimostrazione dell'aggressione del “demone” nero, fermato dall'agente in auto che gli aveva intimato di non camminare in mezzo alla strada: leggera contusione alla mandibola e un graffio sul mento dovrebbero indicare che Wilson aveva ragione di temere per la sua vita e quella altrui, di inseguire Brown e utilizzare forza letale quando questo, ferito, si ferma e si gira. L'ospedale manda a casa Wilson con una pastiglia. Intanto il corpo di Brown resta sul selciato per quattro ore, ricordando, volenti o nolenti, le epoche quando i cadaveri degli afroamericani linciati venivano lasciati in pubblico per dare l'esempio.

Gli stereotipi affiorati come spettri del passato nella tragedia di Ferguson si ritrovano altrove. Erano costati la vita al 17enne Treyvon Martin in Florida, ammazzato da una guardia giurata che lo considerava sospetto, George Zimmermann, assolto l'anno scorso per legittima difesa. Adesso sono sospettati nell'uccisione di Tamir Rice a Cleveland e di Eric Garner a New York. La difesa dell'agente Pantaleo, stando alle prime ricostruzioni dei lavori di Gran Jury, e' stata semplicemente che non intendeva fare del male e uccidere la vittima e che la presa letale sarebbe stata in realtà una mossa di lotta tramutatasi per errore in uno strangolamento.

Ma la crisi è ormai «più grande di ciò che è accaduto a Ferguson», ha dichiarato Dorothy Brown, docente di legge alla Emory University di Atlanta. Più grande di Cleveland, della Florida e di New York. Quanto più grande? Cinque anni or sono il 76% degli afroamericani affermava che i rapporti razziali procedevano bene o abbastanza bene. Oggi gli ottimisti sono bruscamente diminuiti al 64% nonostante l'elezione e la rielezione di Barack Obama, il primo presidente afroamericano nella storia. Un abisso di sfiducia che minaccia di continuare a crescere e di tenere aperta la profonda ferita razziale che ancora perseguita l'America.

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