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Questo articolo è stato pubblicato il 05 dicembre 2014 alle ore 07:56.
L'ultima modifica è del 05 dicembre 2014 alle ore 09:30.

È la mina che può esplodere sui mercati il prossimo anno. La crisi russa in senso ampio, con le sanzioni, il crollo del rublo, l’inflazione quasi a doppia cifra, la fuga dei capitali, la guerra in Ucraina e la caduta del prezzo del petrolio, è secondo diverse fonti (tra le quali Standard & Poor’s) uno dei «top geopolitical risk» del 2015. E mentre sui mercati continua a rotolare il rublo (ormai a un passo da quota 55 contro il dollaro), Putin chiede alla banca centrale «di prendere misure rigorose per togliere la voglia agli speculatori di giocare con le fluttuazioni» della valuta russa. Ma non è facile.
La crisi di oggi riporta alla mente per certi aspetti le prime fasi del crack del 1998, innescato dalla crisi asiatica dell’anno precedente, che sfociò in una ristrutturazione del debito interno di Mosca nonostante l'intervento del FMI, in un crollo di Borsa del 75% e in un'inflazione oltre l'80%, con 43 milioni di russi precipitati in condizioni di povertà (anche per via del fallimento di diverse banche). Ma davvero è possibile che uno scenario così catastrofico si ripeta?
«Una delle differenze chiave di oggi rispetto al 1998 è il livello delle riserve in valuta estera - spiega Urban Larson, portfolio manager di Standish (Gruppo BNY Mellon) - . Attualmente si aggirano intorno ai 420 miliardi di dollari, comprendendo anche i fondi sovrani costituiti negli ultimi anni». Mentre nel 1998 le riserve erano assai più esigue e l'economia molto più debole, anche per la transizione dal sistema pianificato a quello del libero mercato. «L'aumentata flessibilità della valuta, la maggior robustezza delle riserve e una superiore padronanza delle politiche economiche rende la Russia in grado di sostenere oggi gli stress meglio di 16 anni fa». Secondo Larson inoltre la decisione di lasciare fluttuare liberamente il rublo è stata positiva, poiché riduce i costi di difesa della valuta e fornisce alla valuta un “cuscinetto” per mitigare la diminuzione del prezzo del greggio.
Le difficoltà però restano. Lunedì scorso la banca centrale russa è intervenuta con 700 milioni di dollari per alleggerire la pressione sul rublo: è la prima volta dal 10 novembre, quando la valuta è stata lasciata fluttuare al di fuori della sua banda di oscillazione. Secondo quanto riferito da alcune sale operative, mercoledì Mosca ha raddoppiato con un ulteriore intervento da 1,5 miliardi di dollari. Nel prossimo mese il sostegno del cambio richiede, per essere minimamente efficace, interventi sul mercato per importi stimati tra i 10 e i 30 miliardi di dollari, con un conseguente impoverimento delle riserve. E un ulteriore intervento sui tassi per contrastare le pressioni inflazionistiche avrebbe l'effetto di frenare ancor più una crescita che presto sarà negativa. Ieri peraltro, nel discorso alla nazione, Putin non ha nemmeno accennato alla recessione prevista dal prossimo anno. Quanto all'inflazione - che quest'anno dovrebbe raggiungere il 9% - lo “zar” ha auspicato di contenerla al 4%, ma senza fornire una ricetta per raggiungere l'obiettivo.
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