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Questo articolo è stato pubblicato il 30 dicembre 2014 alle ore 06:36.
L'ultima modifica è del 30 dicembre 2014 alle ore 08:07.

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Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi (LaPresse)Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi (LaPresse)

ROMA - Via i «fannulloni» nella pubblica amministrazione. Matteo Renzi approfitta della polemica sorta all’interno del suo stesso governo sull’estensione o meno del nuovo contratto a tutele crescenti ai dipendenti pubblici per chiarire la sua posizione a riguardo e rilanciare uno dei suoi vecchi cavalli di battaglia: premiare il merito e punire chi ruba, non lavora o si assenta a lungo. «Ho deciso io di eliminare la precisazione che le norme del Jobs act non valessero per gli statali», ha chiarito il premier nel corso della tradizionale conferenza stampa di fine anno. Una decisione, quella del premier, che non significa però voler mantenere lo status quo nel pubblico impiego. «La questione verrà affrontata nell’ambito della riforma della Pa del ministro Madia». Tra febbraio e marzo, insomma, quando la tempesta Italicum-riforme costituzionali-elezione del successore al Colle sarà passata.

Licenziamento per scarso rendimento

Non è un caso che l’esponente della minoranza del Pd Cesare Damiano commentava con soddisfazione a fine giornata: «Il premier ha messo una pietra tombale, dopo l’opting out e lo scarso rendimento, anche all’ultima pretesa di Ncd e di Pietro Ichino di trasferire le regole del Jobs Act al settore pubblico». Chiaro che nella decisione di Renzi di “posticipare” la questione c’è anche l’intento di non creare altri motivi di tensione con la minoranza del suo partito, che invece il premier ha interesse a tenere il più possibile compatto in vista del voto sul Quirinale. Ma le cose non stanno esattamente come dice Damiano, dal momento che Renzi ha fatto riferimento proprio alla possibilità di prevedere per i dipendenti pubblici il licenziamento per scarso rendimento (che invece non è stato inserito nel Jobs act). «Io penso che vada cambiato il sistema del pubblico impiego - ha spiegato il premier - ma non è detto che si debba prevdere lo stesso me ccanismo del Jobs act. Magari si può rafforzare il ruolo dei giudici, che nel privato abbiamo ridotto al minimo, per rispettare il “regime differenziato” di chi è stato assunto tramite concorso pubblico». D’altra parte già oggi il sistema di tutela reale (reintegro) previsto dall’articolo 18 è per i dipendenti pubblici quello ante legge Fornero. Il premier ha poi bollato come «ipotesi da escludere» che Tito Boeri alla presidenza dell’Inps preannunci una riforma delle pensioni.

L’Europa e il nodo investimenti

Dal lavoro alla pubblica amministrazione, dalle riforme istituzionali a quelle del fisco e della giustizia. Le riforme strutturali sono fondamentali e le stiamo facendo - dice Renzi - ma da sole non bastano per ripartire: «C’è bisogno di un cambio di paradigma a livello europeo». Il 2015 sarà dunque l’anno della battaglia per scorporare gli investimenti dal computo del 3% deficit/Pil. «Il tema degli investimenti è centrale: la nostra richiesta storica è scomputarli dal Patto, vedremo se questa richiesta sarà accolta dall’Ue. Il resto lo scopriremo solo vivendo...», così risponde il premier a chi gli chiede se, nel caso in cui nella Ue non passi lo scomputo degli investimenti, l’Italia potrebbe andare avanti da sola sforando il 3%. Un’ipotesi che Renzi sembra non escludere, ma intanto ci sono obiettivi più realistici: «Abbiamo 5 miliardi di euro solo per far fronte alla possibilità di spendere i fondi europei che ci sono, ed è evidente che questi denari debbono essere messi in condizione di essere scomputati dal patto».

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