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Un lungo «arco di crisi» irrisolte

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Un lungo «arco di crisi» irrisolte

  • –Alberto Negri

L’avanzata del califfato

Gli americani si sono ritrovati a guidare un intervento militare internazionale

per contrastare l’entità più barbarica mai comparsa

cadrà un altro muro?

Un accordo sul nucleare iraniano potrebbe riportare

in scena Teheran a pieno titolo, riallacciando

le relazioni con gli Stati Uniti

Dall’assedio di Kobane a Kabul, da Damasco a Baghdad, da Gaza a Tripoli di Libia: da questi luoghi emblematici è passato il 2014 lungo un “arco di crisi” che agita il Grande Medio Oriente, dal Mediterraneo all’Asia centrale. Sono trascorsi 35 anni da quando Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale di Carter, coniò l’espressione “arco della crisi”: era il 1979, lo Shah era stato abbattuto dalla rivoluzione in Iran e l’Urss invadeva l’Afghanistan.

Molte cose sono mutate da allora ma ancora una volta il Medio Oriente è stato il teatro di un intervento militare internazionale guidato dagli americani non contro un regime consolidato ma per contrastare l’avanzata del Califfato, l’entità più inafferrabile e barbarica mai comparsa nella regione .

L’arco della crisi, dopo l’Ucraina, è tornato a contrassegnare i rapporti di forza tra le due maggiori potenze ma con l’emergere di nuovi incontrollabili attori nel cuore di antiche tragedie mediorientali che qui non hanno mai trovato soluzione: dai palestinesi ai curdi, che oggi incrociano il loro destino con quello dei nuovi profughi, i siriani, i cristiani, gli yezidi, minoranze perseguitate quasi fino al genocidio.

Eppure il 2015 potrebbe essere l’anno della svolta, forse l’inizio della fine dei vecchi confini che avevano resistito alla decolonizzazione, all’affermazione del nazionalismo arabo, alla guerra fredda, e adesso vengono inghiottiti dallo sgretolamento di interi Stati, dall’Iraq alla Siria, alla Libia.

Il cambiamento potrebbe però venire anche da un passo fondamentale: l’accordo sul nucleare con l’Iran degli ayatollah. Se Teheran rientra a pieno titolo nel gioco internazionale l’influenza si sentirà su tutta la regione, dal Golfo alla Siria, all’Iraq. Il vero Muro del Medio Oriente si è costituito con la rottura delle relazioni tra Usa e Iran che dura ufficialmente dal 1979: è questo che ha condizionato nella regione tutte le scelte americane e occidentali, soprattutto quelle sbagliate.

L’unica certezza, per ora, è che le guerre continueranno. Il 28 dicembre, dopo 13 anni di conflitto e 11 anni di presenza Nato a Kabul, la bandiera dell’Isaf è stata ammainata: dal primo gennaio rimane una missione ridotta denominata Resolute Support. Che la guerra sia tutt’altro che finita lo dice un particolare: il luogo della cerimonia di fine missione è stato tenuto segreto per evitare sabotaggi. Non solo i talebani rimangono temibili ma hanno riguadagnato terreno. E come dimostra il massacro nella scuola di Peshawar, destabilizzano sia l’Afghanistan che il Pakistan, potenza nucleare in perenne tensione con l’India.

È stato questo l’anno del Califfato, dello Stato Islamico, proclamato dalla misteriosa figura di Abu Bakr Baghdadi che a cavallo tra Siria e Iraq esercita il suo sanguinario potere su un’area estesa quanto la Gran Bretagna e popolata da oltre 12 milioni.

L’intervento della coalizione guidata dagli Stati Uniti, composta oltre che dalle potenze occidentali da alcuni Paesi arabi, è stato finora soltanto aereo ma gli americani hanno sul terreno duemila consiglieri militari di un esercito iracheno che di fronte all’Isis si è liquefatto mentre il governo di Baghdad a maggioranza sciita non riesce ancora a trovare un accordo con la minoranza curda e quella sunnita per sferrare l’offensiva contro il Califfo.

La tentazione geopolitica, 11 anni dopo la caduta di Saddam per mano americana (e a otto dalla sua impiccagione nel Capodanno 2006), è ancora quella di rifare la mappa del Medio Oriente. Il segnale dei mutamenti in corso viene dai diversi contingenti occidentali di stanza a Erbil, capitale del Kurdistan, inviati per aiutare i curdi ma anche per reclamare con la presenza militare un ruolo nella futura spartizione della regione.

L’altra certezza è che le guerre in Iraq e Siria saranno ancora guerre per procura, per il petrolio, il controllo delle risorse e della terra. E saranno anche guerre di influenza tra blocchi di alleanze.

In Siria, da quattro anni travolta da un conflitto con oltre 200mila morti e nove milioni tra profughi all’estero e rifugiati interni, a Damasco è ancora al potere il presidente Bashar Assad, che si tiene in piedi per il sostegno di tre alleati, Russia, Iran e Hezbollah libanesi. Il blocco sciita che passa da Teheran, Baghdad, Damasco e il Libano, si autodefinisce l’”asse della resistenza”. Lo fronteggiano le formazioni jihadiste siriane, l’Esercito libero e il Califfato, milizie in concorrenza o in guerra tra loro: un eterogeneo fronte sunnita che ha i suoi sponsor nella Turchia, nell’Arabia Saudita, nel Qatar.

L’altro Paese che sta sprofondando è la Libia del dopo Gheddafi. Due governi, uno a Tobruk, ritenuto legittimo dalla comunità internazionale, un altro a Tripoli costituito dalle milizie islamiche di Alba Libica e dalle forze di Misurata. In mezzo centinaia di fazioni, clan tribali, i jihadisti di Ansar el Sharia e quelli di Derna affiliati al Califfato.

Anche qui affiorano sempre più potenti le ingerenze esterne. A Bengasi le milizie del generale Khalifa Heftar sono sostenute da Egitto ed Emirati mentre la Francia con altri Stati africani si sta affacciando ai confini meridionali della Libia. La posta in gioco è la spartizione delle riserve energetiche di un Paese che produce sei volte meno petrolio dei tempi del dittatore: qui per la seconda volta in quattro anni l’Italia rischia di vedere in mano ad altri il destino di un Paese-chiave sotto il profilo economico e della sua sicurezza.

Ma questo Medio Oriente non è soltanto guerre e orrore. La Tunisia ha completato la transizione dalla dittatura di Ben Alì con metodi democratici, resistendo alla destabilizzazione e al radicalismo: è stato eletto dall’Economist il Paese dell’anno, dimostrando che l’Islam politico può convivere con i laici e non affondare come è accaduto in Egitto.

E poi ci sono le donne: le eroiche combattenti curde di Kobane, le arabe che non si arrendono alla violenza anche al costo della vita, come la libica Salwan Bugaighis, uccisa quest’anno a Bengasi, come la deputata irachena Fayan Dahel, che ha levato in mezzo al Parlamento il suo grido di dolore per salvare gli yezidi dallo sterminio. Dal Medio Oriente delle grandi religioni, del viaggio del Papa in Turchia, non viene soltanto dolore e morte: qui si compie, in una lotta quotidiana serrata tra la vita e la morte, buona parte del destino dell’umanità, dei popoli e delle nazioni.

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