Italia

Blitz falliti, paura per il pilota rapito

  • Abbonati
  • Accedi
(none)

Blitz falliti, paura per il pilota rapito

  • –Alberto Negri

Che cosa fare per la Siria? La domanda sorge spontanea quando si scorre la cronaca e gli eventi ci colpiscono più o meno direttamente: il sequestro delle due giovani volontarie italiane, insieme a quello del gesuita Paolo dall’Oglio nelle mani dei rapitori dal 2013, l’uccisione (riferita dalla tv satellitare Al Mayadin) del pilota giordano Muadh Kassasbe catturato dal Califfato il 24 dicembre, le decapitazioni e le morti violente di un Paese senza speranza che si sta sgretolando ancora più velocemente del vicino Iraq, senza un giorno di tregua dall’invasione americana del 2003, più disastrosa del Vietnam perché da oltre un decennio sta calamitando l’afflusso nella regione di tutti i gruppi islamici più sanguinari.

La Mesopotamia, la Terra tra i due fiumi, il Tigri e l’Eufrate, culla della civiltà - anche della nostra - è inghiottita in un gorgo dove vengono massacrati interi popoli, minoranze comprese, e con un potenziale di destabilizzazione imprevedibile di fronte a un Califfato con un deterrente militare più efficace di quanto abbiano descritto le fonti occidentali.

Lo dimostra il fatto che per liberare il pilota giordano precipitato con il suo caccia nella zona di Raqqa sarebbero falliti l’altra notte due blitz delle forze speciali americane - più coinvolte sul terreno di quanto non voglia far credere Obama - con aerei ed elicotteri investiti dalla contraerea jihadista. Nei giorni scorsi l’Isis aveva lanciato sul web un sondaggio choc, chiedendo quale fosse il modo migliore per uccidere il pilota catturato, pubblicando in seguito un’intervista a Kassasbe ritratto con la tuta arancione che ricorda quella dei detenuti a Guantanamo, diventata un macabro simbolo dei prigionieri destinati alla morte.

La coalizione guidata dagli Stati Uniti e formata da alleati arabi e occidentali sta conducendo i raid aerei in Iraq e in Siria contro il Califfato di Abu Bakr Baghdadi con esiti contrastanti: sono oltre un migliaio i jihadisti uccisi ma sul terreno i gruppi armati fanno quello che vogliono, assoggettando le popolazioni alla fame e a violenze inaudite. La lotta condotta dalle forze arabe sciite e sunnite e da quelle curde che si oppongono allo Stato Islamico è così complicata dalle reciproche rivalità che la prevista offensiva per riprendere Mosul deve ancora iniziare e l’altro giorno è stato ucciso a Samarra il generale Hamid Taghavi, il primo alto ufficiale iraniano a cadere in battaglia dalla fine della guerra Iran-Iraq nel 1988.

Si recita ormai come un mantra che le frontiere coloniali sono scomparse, che bisogna rifarle, ma con quali attori e in che modo? Le vittime della guerra siriana, cominciata con la rivolta contro Bashar Assad nel 2011, sono oltre 200mila (76mila nel 2014), i profughi, tra interni ed esterni, nove milioni. Questo è un conflitto per procura dove agli alleati del regime di Bashar Assad - Russia, Iran, Hezbollah libanesi - si contrappongono almeno cinque raggruppamenti militari con i rispettivi sponsor: il Califfato, il Fronte al Nusra, appoggiato dal Qatar, l’Esercito libero siriano, sostenuto dalla Turchia, il Fronte islamico, finanziato dall’Arabia Saudita, le milizie curde, divise per affiliazione tra il Pkk e il Kurdistan di Massud Barzani. Spartire questo Paese sbranato dalle milizie richiede un summit internazionale di tutti gli Stati coinvolti dove far sedere al tavolo anche i rappresentanti di gente che ha decapitato, impiccato e massacrato.

Cosa si fa allora quando muore una nazione? È una domanda forse senza risposta che lasciamo a questo inizio di nuovo anno quando probabilmente sulla carta geografica troveremo soltanto un’ex Siria.

© RIPRODUZIONE RISERVATA