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Se nel 2015 «arrivano i nostri» anche in Europa

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verso il consiglio bce del 22

Se nel 2015 «arrivano i nostri» anche in Europa

L’anno si apre con l’euro al livello più basso dall’inizio di questo decennio e i tassi d’interesse ai minimi storici: è il segno che i mercati danno per scontato che la Bce metterà presto in campo le armi non convenzionali da tempo discusse. Una svolta importante che Mario Draghi ha preparato con grande abilità e che appare ormai ineludibile. Innanzitutto per motivi economici: la ripresa (si fa per dire) europea è ancora flebile, soprattutto rispetto alle previsioni di qualche mese fa.

E soprattutto, la dinamica dei prezzi continua a mantenersi pericolosamente al di sotto del livello prossimo al 2 per cento che costituisce l'obiettivo della Bce. Un rischio tanto più grave se si considera che le aspettative di inflazione (quelle che contano nelle decisioni di spesa e di investimento) si stanno stabilizzando su valori così bassi da rendere assai probabile uno scenario deflazionistico simile a quello giapponese degli anni Novanta.

Ma vi sono anche forti ragioni politiche: la deludente performance delle economie europee è il principale alimento delle campagne contro l'Europa e la moneta unica. In un anno che si apre nel segno dell'ennesima crisi greca con relative elezioni, non basta stigmatizzare genericamente la deriva populista, ma occorre contrastarne le ragioni profonde con interventi sostanziali ed efficaci. E le dichiarazioni, purtroppo ripetute anche in questi giorni, di autorevoli consulenti del governo di Berlino secondo cui un ulteriore allentamento della politica fiscale o di quella monetaria possono rappresentare un alibi per rinviare urgenti riforme strutturali, considerati i sacrifici che sono stati imposti a tanti paesi, porta solo acqua al mulino della protesta più indiscriminata.

Se la politica di Bruxelles continua ad essere ancorata ad una strategia dei piccoli passi, a Francoforte la Bce si è finalmente messa nelle condizioni di intervenire, grazie alla paziente strategia di Mario Draghi che ha spostato la frontiera del consenso ad ogni riunione mensile del Consiglio direttivo fino a rendere l'adozione formale del Quantitative easing quasi un passo obbligato. All'inizio di dicembre, il comunicato stampa recitava che «il Consiglio è unanime nel proprio impegno ad usare ulteriori strumenti non convenzionali all'interno del proprio mandato». Non solo.

Si ribadiva anche che le operazioni già decise (e che si prolungheranno fino a giugno 2016) non mancheranno di avere un impatto consistente sul bilancio dell'Eurosistema, che oggi è inferiore di circa 1 trilione di euro al livello del 2012. Dall'inizio di dicembre il consenso sulla necessità di agire subito e con decisione sembra essersi allargato. Lo testimoniano gli interventi pubblici dello stesso Draghi (fra cui il suo articolo su “Il Sole-24 Ore” del 31 dicembre) ma anche le interviste rilasciate da altri autorevoli membri del Comitato direttivo. Pochi giorni fa, Peter Praet, responsabile della ricerca economica ha spiegato dettagliatamente in un'intervista a un giornale economico tedesco (la scelta non appare casuale) i molti motivi economici per cui oggi le prospettive di un inasprimento del quadro recessivo sono ulteriormente aumentate negli ultimi tempi.

A questo punto, appare ormai scontato che alla prossima riunione il Consiglio della Bce annuncerà l'inizio ufficiale della politica di Quantitative easing. La domanda è su quali strumenti punterà e se la decisione sarà unanime. Ma anche su questo l'intervista ricordata fornisce due annunci importanti. Praet ha infatti riconosciuto che i titoli pubblici sono gli unici con un mercato sufficientemente ampio e liquido per accogliere gli interventi di una banca centrale. Operazioni di mercato aperto su altri strumenti, a cominciare dai bond societari per non parlare dell'oro, farebbero pensare ad una corazzata che cerca di manovrare in un laghetto.

Praet ha inoltre detto che non si stupirebbe se la decisione non fosse unanime. Essendo le banche centrali organismi diversi dal Politburo, è fisiologico che nell'organo di vertice non tutti la pensino allo stesso modo. E se prima della prossima riunione, fissata per il 22 gennaio, i falchi del rigore monetario non avranno cambiato idea e continueranno a nascondersi dietro il dito di essere d'accordo sul se passare a una politica monetaria più aggressiva, ma non sul quando o sul come, dovranno farsene una ragione. Del resto, Draghi ha realizzato un'altra riforma importante, definita dal “Financial Times” una «rivoluzione silenziosa”; quella di pubblicare il resoconto delle riunioni del Consiglio direttivo. Si tratta di una forma di trasparenza ormai entrata nelle prassi delle banche centrali, che in qualche modo dà per scontato una pluralità di opinioni (e di voti) su cui l'opinione pubblica ha il diritto di essere informata.

Ma non sono più tempi per un umanismo di facciata. Con il 2015 quindi “arrivano i nostri” della politica monetaria non convenzionale, come già si era visto negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Giappone. Proprio quelle esperienze dimostrano però che anche dispiegando tutta la potenza di fuoco delle banche centrali, i risultati possono essere parziali. Diversamente dai film western, l'arrivo della cavalleria può non risultare decisivo, come accade proprio in Giappone, che ha dovuto varare frettolosamente in questi giorni un pacchetto di misure di 30 miliardi di dollari per sostenere la domanda di imprese e famiglie. E' l'ulteriore prova che davanti a un quadro recessivo consolidato l'arma monetaria da sola non basta. Mario Draghi è riuscito a rompere gli indugi a Francoforte e sta guidando la Bce verso una svolta fondamentale. Adesso è Bruxelles (e ovviamente le singole capitali europee) che devono adottare una strategia finalmente adeguata alla grave situazione. E soprattutto capire che le armi che servono non sono più quelle convenzionali e che è tempo di superare l'ortodossia non solo in campo monetario, ma anche in quello fiscale.