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Questo articolo è stato pubblicato il 03 gennaio 2015 alle ore 09:53.

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Davvero l'Europa intende rassegnarsi a diventare l'economia dell'1% nel mondo globale? Il rischio c'è ed è molto concreto. Non è necessario spingersi fino a prendere per buone le plumbee previsioni dell'ex-segretario al Tesoro Usa, Larry Summers, che ne annuncia la «stagnazione secolare». Bastano quelle della Commissione Ue che per il prossimo decennio si attendono per l'eurozona una crescita media inchiodata appunto all'1%, cioè a un tasso che sarà meno della metà di quello degli Stati Uniti. O gli ultimi dati Ocse che danno l'area euro schiacciata sui ritmi giapponesi nel biennio 2014-15 con uno sviluppo annuo dello 0,8 e 1,1% contro lo 0,4 e 0,8 % di Tokyo, quando l'America viaggia sul 2,2 e 3,1%, il mondo sul 3,3 e 3,7%, gli emergenti sul 5,1 e 5,4%.

Numeri non sorprendenti, per molti aspetti soltanto feroci e impietose conferme della china pericolosa, e finora senza ritorno, su cui l'Europa si è incamminata: l'orizzonte è la sindrome nipponica, lunga stagnazione a braccetto con lo spettro della deflazione. Una miscela esplosiva non solo per la stabilità economica e finanziaria e per la sostenibilità dei debiti ma anche per la tenuta politica e la sostenibilità dei governi e delle democrazie europee.

«Se 10 anni fa qualcuno mi avesse detto che l'Europa poteva crollare, gli avrei risposto impossibile. Oggi la realtà è profondamente cambiata. La svolta è arrivata nel 2009 con la crisi scoppiata oltre Atlantico. Da continente win-win, simbolo di crescita e di benessere, l'Europa è diventata il pianeta della stasi economica e delle divisioni: con la solidarietà a rischio e senza idee non resisterà a lungo» affermava qualche settimana fa a Bruxelles l'ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer. Denunciando la «crisi strutturale della governance europea che, in ultima analisi, è la crisi delle sovranità nazionali». Bocciando «le politiche di austerità che hanno trasformato la crisi dell'euro in una crisi politica, alienandosi il consenso dei cittadini». Davvero c'è da stupirsi se un disoccupato diventa euroscettico? In Europa ce ne sono 26 milioni, quanti la popolazione di Belgio e Olanda.
«Ma è possibile che politica e finanza in Germania non si rendano conto che l'America ha ripreso a correre (+5% la crescita nell'ultimo trimestre 2014, ndr) perché ha attuato azioni economiche e monetarie fortemente espansive e che questa è la strada per risollevare la domanda interna in Europa» si chiedeva e chiedeva questo giornale nella lettera di Natale ai propri lettori.

La soluzione dell'1% non è una scelta economicamente sostenibile, nemmeno per i Paesi più ricchi e solidi, come la Germania o i Paesi scandinavi.

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