materie prime in calo
La flessione del petrolio
e delle commodities
ridistribuirà
il reddito a favore
dei Paesi importatori
Molto, se non tutto, dipenderà dal dollaro. Lo scenario comune per i Paesi emergenti nel 2015 - facendo astrazione quindi dalle storie delle singole economie - è legato ai destini della moneta americana. Così è stato nel recente passato: nel 2013 per esempio, quando la Federal Reserve annunciò in modo un po’ maldestro un cambio di politica che scatenò turbolenze su tutti i mercati. Così sarà nel 2015 che, al momento, si presenta come la continuazione, in chiave più complessa, del 2014.
Il dollaro si è apprezzato, l’anno scorso, del 13,7% medio nei confronti delle principali valute. È tanto, se si pensa che l’euro, nello stesso periodo, ha perso il 5% del suo valore. Il miglioramento delle prospettive economiche Usa, che hanno spinto la Fed ad azzerare i nuovi acquisti di titoli di Stato e a preparare per metà 2015 il rialzo dei tassi, ha avuto un forte effetto sui cambi. Anche perché la politica monetaria è invece rimasta ultraespansiva in Giappone, impegnato in un colossale quantitative easing, ed è diventata progressivamente più “accomodante” - come dicono i banchieri centrali - in Eurolandia. La distanza dei tassi, attuali e previsti, ha spinto il dollaro in alto.
La conseguenza si è vista nei prezzi delle materie prime, che sono trattate in dollari. Il loro calo complessivo da dicembre 2013 a novembre 2014, secondo l’indice dell’Fmi, è stato del 19%, che escludendo i combustibili diventa un -8%. Non c’è stato però solo un effetto-cambio. La flessione del petrolio per esempio è solo in minima parte legata al rialzo del dollaro: dietro il calo del greggio c’è soprattutto un aumento della produzione - previsto da pochi ma del tutto prevedibile per l’entità degli investimenti nel mondo, a cominciare dagli Usa - e anche una riduzione della domanda per la lenta ripresa dei Paesi avanzati, Eurolandia in testa.
Il calo del greggio, proprio perché slegato dal dollaro, darà un forte impulso alla crescita in quasi tutti i Paesi. Secondo il capo economista del Fondo monetario internazionale, si tratta di una spinta pari a 0,3-0,7 punti percentuali per la crescita globale. La flessione dei prezzi di tutte le materie prime - petrolio compreso - determinerà però una forte redistribuzione dei redditi tra Paesi produttori e Paesi “consumatori” di queste commodities, con effetti molto diversi. Sicuramente economie esportatrici come la Russia e il Brasile - entrambe destinate alla recessione - insieme al Sudafrica e al Messico continueranno a soffrire, ma anche il Venezuela (che però può sostenere un prezzo del petrolio fino a 60 dollari senza problemi) e la Nigeria sono a rischio. In molti di questi Paesi - la Russia è il caso emblematico - alle esportazioni di materie prime e di petrolio sono poi legate anche le entrate fiscali, mentre l’indebitamento pubblico e privato è spesso denominato in dollari.
Il versante creditizio e finanziario complica infatti le cose. Se continuasse con l’attuale forza, il rialzo del dollaro, affiancato all’aumento dei tassi di interesse americani, potrebbe innanzitutto far invertire un flusso di denaro che, negli ultimi mesi, si è diretto verso i Paesi emergenti. L’Institute of International Finance non prevede in realtà grandi turbolenze. «Ci sono però un po’ di Paesi - spiega Benoît Anne di Société Générale in una sua ricerca - che sono nel mezzo di una impennata dei flussi di capitali: l’Indonesia, la Turchia e il Messico. Le loro valute sono quindi vulnerabili a un possibile inversione di marcia degli investimenti».
Anche in questi Paesi, come nelle economie avanzate, c’è inoltre un problema di debito, non solo pubblico. «Sembra che molte nazioni emergenti - aggiungono Stephen King e Karen Ward della Hsbc riassumendo un’analisi della Banca per i regolamenti internazionali di Basilea - siano vulnerabili a quella che potrebbe essere vagamente descritta come l’inversione di un carry trade aziendale. Grazie alle tentazioni associate al prolungato quantitative easing, molte compagnie con sede nel mondo emergente hanno emesso debito in valute forti e hanno trasferito i ricavi in depositi bancari in valuta locale, favoriti da un generoso spread sui tassi di interesse. Nello stesso tempo, quei Paesi emergenti erano afflitti da scarsi utili su investimenti, da un deterioramento della competitività e da una dipendenza non sana dalle esportazioni di materie prime». La flessione delle valute emergenti rispetto al dollaro renderà ora complicato rimborsare i debiti così contratti. Cile, Cina, Indonesia, Malaysia e Perù sembrano siano i Paesi più a rischio sotto questo punto di vista.
Il rialzo del dollaro, nella fase attuale, è anche il rialzo dello yuan, che al dollaro è legato, sia pure in maniera non rigida. Può la Cina, in questa fase, permettersi un apprezzamento del cambio verso i Paesi esterni a “dollarolandia”? I dubbi sono tanti. La debolezza della domanda di Eurolandia e Giappone, oltre che di alcuni altri Paesi, sta pesando sul gigante asiatico, e non è impossibile associare la flessione delle materie prime anche a una rallentata domanda cinese.
La Cina sta cambiando pelle molto rapidamente. Il governo di Pechino sta cercando di raffreddare l’economia, anche allo scopo di riequilibrare il Paese a vantaggio della domanda domestica: il pil cresce ora a un ritmo del 7%, contro il 10,5% del passato, e il surplus commerciale è sceso al 2% del pil dal 10%, mentre l’export aumenta del 5-10% annuo contro il 10-20% del passato.
È un fenomeno del tutto normale e prevedibile,dopo tanti anni di rapida crescita, ma qualcosa sembra stia sfuggendo dalle mani dei funzionari cinesi: alla crisi globale hanno risposto con un aumento di investimenti pubblici ma «i dati suggeriscono - aggiunge King - che il conseguente boom di infrastrutture e investimenti sia stato accompagnato da un tasso marginale di redditività del capitale in forte calo. Non è impossibile immaginare ora che si sviluppi un circolo vizioso in cui una bassa redditività marginale porti a una crescita bassa a livelli inaccettabile che spinga a nuovi interventi pubblici, più alti livelli di debito e una redditività marginale ancora più bassa». Una Cina in crescita del 4-6% avrebbe conseguenze molto pesanti per l’economia globale, così come una svalutazione dello yuan per evitare la frenata creerebbe molte turbolenze: dai tempi della crisi asiatica la valuta di Pechino ha fatto da ancora a tutte le valute emergenti.
Tutto ruota dunque attorno al dollaro. Gran parte dei destini dell’economia è quindi soprattutto nelle mani - e la cosa non sorprende - della Federal Reserve. La politica monetaria americana in genere non valuta, se non in misura marginale, le ricadute all’estero delle proprie scelte; ma sicuramente prenderà in considerazione gli effetti di un rialzo della valuta sulla crescita e sull’inflazione Usa. Il presidente Janet Yellen, e gran parte del board, appaiono orientati a un ritorno molto graduale dei tassi di interesse americani verso la normalità: sono colombe, non falchi, e questo, per ora almeno, non può che rassicurare.
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