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Se per Obama Parigi non vale una marcia

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Se per Obama Parigi non vale una marcia

  • –Ugo Tramballi

Le scuse, tardive, rendono l’assenza ancor più clamorosa. «Penso sia giusto dire che avremmo dovuto mandare qualcuno di più alto profilo», ha fatto sapere ieri sera Josh Earnest, portavoce della Casa Bianca. Come è possibile che gli Stati Uniti si siano dimenticati di Parigi? Come può il Paese dell’11 settembre originale – il primo, quello vero, con 2.974 morti, esclusi gli attentatori - aver sottovalutato l’importanza di esserci alla marcia in nome di quella libertà della quale gli americani sono convinti di essere l’esempio più alto, la “Nazione Indispensabile” a garantire quei valori?

Potremmo incominciare dal marchese de La Fayette che nella rivoluzione del 1776 si mise a disposizione di George Washington. Continuare con John Adams, Beniamino Franklin e Thomas Jefferson, uno dopo l’altro rappresentanti dell’America rivoluzionaria a Parigi: nel 1784, quando il re di Francia gli chiese se fosse venuto a “rimpiazzare” Franklin, Jefferson rispose di no, «io sono solo il suo successore, nessuno lo può rimpiazzare». Potremmo arrivare fino ai ragazzi del generale Pershing che nella primavera del 1918 sbarcarono in Francia per fare la differenza sul Fronte Occidentale. E finire con Omaha Beach e, il 26 agosto 1944, la liberazione di Parigi, punto di non ritorno della liberazione d’Europa.

Eppure nella schiera dei leader alla destra e alla sinistra di François Hollande, non c’erano Barack Obama né John Kerry. Nemmeno il vicepresidente Joe Biden. Era una rappresentazione piuttosto retorica, è vero: c’era Ahmet Davutoglu, premier di una Turchia che ha incarcerato più di 50 giornalisti; c’era il rancoroso Bibi Netanyahu venuto principalmente a fare campagna elettorale e gaffes nei confronti del Paese ospitante. La manifestazione doveva ancora iniziare che già gli europei si dividevano fra chi vuole sospendere gli accordi di Schengen e chi come l’Italia, principale Paese ricevente dei migranti, li vuole mantenere.

Ma l’America non poteva non cogliere la dimensione idealistica di quel grande affresco parigino, una specie di “Terzo Stato” dell’Occidente. Non possiamo credere che non ci fossero per aver pensato che l’“11 Settembre della Francia” fosse una inaccettabile imitazione della vera grande tragedia del 2001, costata loro due guerre. Come la sottolineatura di un’Europa smidollata, arrivata sulla prima linea di una guerra al terrore che gli Stati Uniti stanno combattendo da vent’anni. Chi più, chi meno e chi per niente, la gran parte del continente ha solidalmente partecipato a quei conflitti.

L’America ha un notevole grado di presunzione, come tutte le superpotenze, ma non è così arrogante. Forse ha ragione Henry Kissinger quando sostiene che dopo aver combattuto tre guerre in due generazioni (Vietnam, Afghanistan e Iraq), «ognuna incominciata con aspirazioni idealistiche e un diffuso sostegno popolare, ma terminate in un trauma nazionale», l’America si stia ancora lacerando nel definire la relazione fra il suo immenso potere e i suoi princìpi.

Ma, ancora, questa non è una spiegazione politica per giustificale la fragorosa assenza. Forse è tutto più semplice, riconducibile a un’imperdonabile sottovalutazione. Fatalmente, il regno repubblicano di Barack Obama non sarà ricordato come una fase decisiva della politica estera americana.

Nei suoi due anni scarsi di presidenza restano ancora due possibili grandi obiettivi: spingere alla pace gli israeliani e i palestinesi, e a un accordo sul nucleare gli iraniani. La prima sembra una missione impossibile; la seconda è probabile ma non porterà in tempo utile alla ripresa delle relazioni fra Stati Uniti e Iran.

Barack Obama è sempre stato un presidente dalle ambizioni domestiche più che internazionali. Il tentativo di ridimensionamento e ridispiegamento della forza americana nel grande Medio Oriente, è coraggioso, logico ma confuso. Non è una politica precisamente definita fino alla sua realizzazione, sufficientemente elastica per reagire alle sorprese: basta che Bashar Assad lanci qualche bomba chimica e nasca, inaspettato, un califfato islamico, e l’intero progetto si mostra inadeguato.

È impensabile che un’intera amministrazione americana abbia sottovalutato la necessità di mandare qualcuno a Parigi: anche se chi frequenta l’ala occidentale della Casa Bianca dice che nei processi decisionali Obama è un grande accentratore. Ma uno psicologo forse rivelerebbe nell’assenza il sintomo di un diffuso desiderio fra i suoi pazienti: la fuga dalla realtà.

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