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La Francia si interroga sui limiti delle libertà

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La Francia si interroga sui limiti delle libertà

  • –Marco Moussanet

CONTROTENDENZA

Una parte del Paese continua

a non riconoscersi nella marcia di Parigi e nelle periferie a maggioranza musulmana è alto il rischio

di proselitismo

PARIGI

E chi non è Charlie? Chi non è sceso in piazza? Chi non si è unito al coro che si è alzato in difesa della libertà d’espressione e contro la barbarie? Dopo i giorni della sofferenza, del lutto, della rabbia e delle manifestazioni, la Francia inizia pian piano – come se avesse paura ad alzare il velo sulla realtà - a interrogarsi sull’altro pezzo del Paese, quello più o meno silenzioso che per ragioni diverse ha scelto di non partecipare al sussulto di unità nazionale seguito al massacro di Parigi. A chiedersi se è davvero giusto che i limiti alla libertà d’espressione siano così ampi. E se non si siano usati due pesi e due misure con gli irriducibili di Charlie Hebdo e l’umorista antisemita Dieudonné.

Dal punto di vista strettamente giuridico non ci sono molti dubbi. La legge francese non prevede il reato di blasfemia e di oltraggio alla religione. Mentre ci sono quelli di apologia dei crimini contro l’umanità e di incitazione all’odio nei confronti degli appartenenti a un’etnia, una razza o una religione (oltre alla recentissima new entry dell’apologia del terrorismo). Quindi i vignettisti e i giornalisti del settimanale satirico, che se la prendono con tutti senza alcuna distinzione, sono innocenti. Dieudonné, che se la prende con gli ebrei, è colpevole e verrà processato.

Ma questo ovviamente non risolve il problema. A maggior ragione in un Paese con le più grandi comunità musulmana (oltre 6 milioni di persone) ed ebraica (circa 600mila) d’Europa. E dove i giovani figli dell’immigrazione hanno accelerato un preoccupante processo di identità comunitaria – certo, soprattutto nelle periferie-ghetto a maggioranza musulmana – che diventa terreno fertile per la radicalizzazione. Un processo largamente alimentato dai ripetuti soggiorni dietro le sbarre, in carceri che sono diventate i luoghi per eccellenza – quanto e forse più delle moschee – dell’indottrinamento e del reclutamento.

In una sessantina di scuole sono stati segnalati episodi di aperta contestazione del minuto di silenzio in omaggio alle vittime delle vittime di Parigi quando non di dichiarata simpatia per i tre terroristi.

Nel quartiere della Grande Borgne di Grigny, uno dei più poveri e disperati di Francia – dov’è nato Amedy Coulibaly, che ha ucciso una vigilessa e quattro ebrei alla Porte de Vincennes – i giornali francesi hanno raccolto testimonianze emblematiche. Di tanti ragazzi che spiegano di non aver nulla a che fare con i manifestanti di domenica scorsa: «Nessuno di noi è andato alla marcia. Una roba fatta da e per i borghesi, i ricchi, i bianchi. D’altronde avete visto molti neri o arabi nel corteo? Noi no». E sulle vignette di Charlie Hebdo hanno un’opinione ben diversa rispetto a quella dei partecipanti al corteo: «Sono cose che non si fanno. Non è accettabile che si ridicolizzi così il Profeta. Si colpisce qualcosa che per noi è sacro. Questi disegni offendono la nostra religione. Si sono spinti troppo lontano, sono stati avvertiti tante volte, perché non si sono fermati?».

Per non parlare delle tesi cospiratorie anti-Islam (secondo le quali gli attentati sarebbero stati organizzati dal Governo francese in accordo con quelli israeliano e americano per mettere in cattiva luce la comunità musulmana) che fioriscono sui social network e che questi giovani rilanciano.

E quello che succede a Grigny non è molto diverso da quanto accade in tanti altri quartieri delle banlieues francesi.

Bisognava fermarsi prima? Anche se la legge non lo vieta era necessario avere una maggiore attenzione e sensibilità per la situazione di quartieri dove le vignette di Charlie piombano come delle bombe, offrendo nuovi strumenti di propaganda ai fondamentalisti e favorendo l’emergere di schegge impazzite come quelle dei tre giorni terribili di Parigi?

È quello che pensa Henri Roussel (nom de plume Delfeil de Ton), 80 anni, uno dei fondatori prima di Hara-Kiri e poi di Charlie (dal quale se n’è andato nel 1975), grande amico di Wolinski, che in una scioccante, commovente e appassionata testimonianza sul settimanale L'Obs se la prende con Charb, il direttore di Charlie trucidato dai fratelli Kouachi: «Che bisogno c’era di trascinare tutta una redazione in questo gioco continuo al rialzo della provocazione?». E ricorda le parole pronunciate proprio da Wolinski, i cui funerali si sono svolti ieri, all’indomani dell’uscita di Charia Hebdo, con la caricatura di un Maometto nudo, e dell’incendio che distrusse la sede del giornale, nel novembre 2011: «Siamo degli incoscienti e degli imbecilli che hanno preso un rischio inutile. Ci crediamo invulnerabili. Per anni, per decine d’anni, abbiamo fatto della provocazione e poi un giorno la provocazione ci si ritorce contro. Non dovevamo farlo».

Il dibattito, doloroso, è aperto. E nulla sarà più come prima.

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