Se fossimo appassionati dei giochi di ruolo e se quel che sta succedendo sotto il cielo della politica italiana potesse essere considerato tale, l'osservazione delle ultime mosse dello scontro parlamentare sulla riforma elettorale potrebbe anche essere in certo modo istruttivo e per qualcuno persino eccitante.
Trattandosi invece di un passaggio per creare dei meccanismi che devono governare il futuro del nostro paese, non si può evitare di provare qualche preoccupazione. Qual è infatti il contenuto reale del confronto andato in scena (e in questo caso la similitudine è piuttosto pertinente)? Lasciamo da parte le questioni sui “nominati” e sulle preferenze che sono cortine fumogene, perché sino ad oggi tutti i candidati eletti sono stati nominati all'interno di meccanismi di selezione in mano ai partiti e perché in un ieri neppur troppo lontano le preferenze erano oggetto di anatema come veicoli di corruzione. La questione centrale è il passaggio del premio di maggioranza dalla coalizione alla lista.
Molti si chiedono perché Berlusconi abbia alla fine ceduto su questo punto, ma non ci vuol molto a capirlo. Per mettere insieme una coalizione che possa avere una speranza di successo contro Pd e M5S, non potrebbe fare a meno della Lega e oggi allearsi con Salvini non sarebbe per Forza Italia un progetto politico, ma una forma di suicidio assistito. La Lega è nei sondaggi alla pari con Fi, il suo leader spaventa con l'estremismo populista quella parte di classe dirigente tradizionale che ancora sta con l'ex Cavaliere perché non trova o non vuol trovare posto sul carro di Renzi.
Liberato dall'obbligo di costruire una coalizione tanto improbabile, quanto nel caso ingovernabile, Berlusconi può ritagliarsi un ruolo più proficuo per lui personalmente e per quel mondo che ancora, nonostante tutto, lo segue: il ruolo della “opposizione di Sua Maestà”. Anche un Pd maggioritario grazie al premio non avrà vita facile in parlamento: un po' perché comunque per essere maggioritario nelle urne dovrà continuare ad essere “plurale” (come si amava dire fino a qualche tempo fa), e di conseguenza continueranno le tensioni fra le sue “anime”; un po' perché comunque in un sistema politico non conta solo il consenso elettorale, ma anche il peso degli ambienti che si rappresentano. Non per fare i saputelli, ma vorremmo ricordare che De Gasperi lo spiegò in una famosa lettera a Pio XII nel 1951, quando chiarì che la sua maggioranza quasi assoluta uscita dalle urne del 1948 doveva poi tenere conto del peso che nel paese avevano quelli che oggi definiremmo “poteri forti”.
È chiaro però che questo scenario non va bene a molti altri attori del gioco politico, a cominciare dalla minoranza Pd. La richiesta del sen. Gotor di ammettere almeno gli “apparentamenti” in fase di eventuale ballottaggio, che oggi con gli ultimi sondaggi si stima come ineludibile per il Pd, è significativa. Con un meccanismo del genere difficilmente Renzi avrebbe potuto ottenere il sostegno del suo partito sull'andare da soli alla prova del ballottaggio e prima nella contrattazione dell'appoggio e poi nella gestione della coalizione di governo che inevitabilmente ne scaturirebbe, la minoranza antirenziana guadagnerebbe spazi di manovra. Ricordare quanto orizzonti di questo tipo siano stati letali per i governi Prodi, sembra inutile, perché poche cose sono labili come la memoria dei politici.
Sarebbe però ingenuo immaginare che la partita si chiuda con l'approvazione della legge elettorale e infatti nessuno lo pensa. Tutti sono convinti che questo confronto ridonderà sulle votazione per il Quirinale, ma pochi avvertono che si potrebbe trattare in questo caso di un gioco al massacro.
In fondo si comincia a capire che proprio la legge elettorale maggioritaria senza coalizioni che è all'orizzonte richiede sul Colle un “timoniere” di grandi doti, perché sarà lui a dover realizzare nel paese la legittimazione del vincitore senza che questa strabordi nell'annientamento del perdente (o dei perdenti). In caso contrario avremo una parte di italiani che si sentiranno autorizzati a non riconoscere l'autorità e il ruolo del governo in carica. Non è che non abbiamo già avuto episodi in questo senso e sappiamo bene che non hanno giovato alle nostre sorti. Del resto superare la nostra cultura politica diffusa per cui tutto deve risolversi in uno scontro fra angeli e demoni non è operazione facile.
Per realizzare il risultato del presidente di “garanzia”, che tale deve essere per gli italiani prima che per i partiti, è opportuno un percorso che lasci da parte le risse e i confronti muscolari in parlamento. Per questo sarebbe altrettanto opportuno evitare la corsa, che non possiamo non vedere in atto, a lanciare in continuazione candidati con la speranza di poter comunque alla fine intestarsi almeno un contributo alla vittoria del nuovo inquilino del Colle. Può darsi che nella confusione gli “astuti” navighino bene, ma l'Italia non ha proprio bisogno in questo momento di rafforzare all'estero l'antico pregiudizio che essa sia una specie di moderna Bisanzio.
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