Non c'è niente di più ipocrita delle parole che hanno accompagnato l'ultimo saluto ad Abdullah bin Abdulaziz, sovrano dell'Arabia Saudita, custode dei luogi santi musulmani della Mecca e di Medina. Alle sue esequie erano presenti più rivali che amici. Non solo l'Arabia Saudita in generale non solleva le simpatie del mondo arabo e musulmano - simpatie che di solito acquisisce con generose donazioni di petrodollari - ma è anche il simbolo della secolare rivalità tra sunniti e sciiti e delle divisioni laceranti che attraversano lo stesso universo sunnita.
Con i paesi musulmani
Forse quello più sinceramente addolorato, e che spera nulla cambi con il successore Salman, è il generale egiziano Al Sisi che da Riad ha ottenuto un sostanzioso appoggio politico ed economico per far fuori i Fratelli Musulmani del deposto presidente Mohammed Morsi. Ma gli altri? Il Qatar e l'Arabia Saudita si detestano cordialmente, mentre emirati e monarchie del Golfo hanno rifiutato clamorosamente la proposta di Riad di un comando militare unificato. Nessuno si fida degli altri, neppure tra vicini che pure condividono lo stesso sistema politico elitario e autocratico. Un altro esempio? Il presidente turco Tayyep Erdogan, che ha cancellato la visita in Somalia per accorrere nella capitale saudita, è in rotta di collisione con la monarchia wahabita per avere defenestrato in Egitto i Fratelli Musulmani su cui contava per estendere la sua influenza nella regione.
Gli iraniani, presenti ai funerali con il ministro degli Esteri, vedono da sempre nell'Arabia Saudita un concorrente e un nemico che con le altre monarchie del Golfo spinse nell'Ottanta Saddam Hussein a condurre una guerra di otto anni e con un milione di morti contro la repubblica islamica dell'Imam Khomeini. Non sono cose che si dimenticano in una generazione.
Riad e Teheran si stanno combattendo per procura in tutto il Medio Oriente. Dalla Mesopotamia - in Iraq e Siria - fino allo Yemen, dove la recente vittoria degli Houthi appartenenti allo zaidismo, un ramo secondario dello sciismo, costituisce per i sauditi un duro contraccolpo.
La divisione tra sciismo arabo-persiano e il sunnismo (gli sciiti sono il 15%) è la più importante dell'Islam: una separazione che risale agli albori della storia musulmana e rappresenta paradossalmente un conflitto antico e molto moderno per il potere e l'influenza religiosa in una vasta area che va dal Mediterraneo al centro dell'Asia passando per il cuore del Medio Oriente.
Americani, alleati «pesanti»
I sauditi, per la verità, non si possono fidare di nessuno, neppure degli americani, che si sono spesi in lodi sperticate per il cauto riformismo del defunto sovrano e rappresentano i loro più importanti alleati da oltre 60 anni, in virtù di un patto di ferro stretto da Roosevelt con Ibn Saud e mai rinnegato: petrolio in cambio di sicurezza.
Ma gli Stati Uniti potrebbero diventare anche quelli che affossano il regno, e non soltanto perché sono diventati anche loro esportatori di petrolio con lo shale oil. Riad teme che gli Stati Uniti e l'Iran possano firmare l'accordo sul nucleare il che significa il ritorno in grande stile di Teheran nel consesso internazionale e come potenza egemone nel Golfo, come lo era già del resto ai tempi dello Shah.
Il rapporto tra Stati Uniti e Arabia Saudita è come un matrimonio dove la parte più debole adesso teme di essere abbandonata. Il Regno ha bisogno dell'America per la sua sicurezza militare, come hanno evidenziato la guerra in Kuwait del 1990-91 e le pessime performance dell'esercito saudita contro gli Houthi nello Yemen.
Washington ha ancora bisogno dell'Arabia Saudita perché quest'ultima finanzia l'industria degli armamenti americani con acquisti massicci, quanto inutili, e garantisce la stabilità sul mercato del petrolio. La priorità degli americani stanno cambiando e la debolezza saudita appare sempre più evidente.
L'Arabia Saudita vive una sindrome da accerchiamentro. Sente la pressione esercitata al suo confine settentrionale dal Califfato e su quello meridionale dagli Houthi e Al Qaeda, una frontiera sfuggente, che corre lungo linee disegnate sulla sabbia dove non conta la fedeltà alla corona ma ai clan e alle tribù. E tutto questo avviene in un momento di grande incertezza per Riad che non riesce a vincere la partita siriana e neppure quella irachena.
I fantasmi dell’estremismo
Una debolezza che viene anche da un fattore strutturale: il Regno ha costruito la propria legittimità su discorso puramente religioso, conservatore e anti-democratico che impone la sottomissione al sovrano. Ma, sia pure in maniera diversa e contrastante, le primavere arabe, il Califfato e gli stessi movimenti salafiti sono diventati dei pericolosi concorrenti che mettono in discussione proprio la legittimità della dinastia dei Saud.
E poi c'è un motivo pratico di sicurezza, forse il più sostanziale. Migliaia di sauditi sono andati a combattere in Siria e in Iraq e ora Riad teme il ritorno di questi reduci perché è ancora vivo come un incubo il ricordo del ritorno dei combattenti dall'Afghanistan negli anni Ottanta e Novanta. Il rischio per l'Arabia Saudita è di affrontare una sorta di nemesi: combattere contro gli stessi fantasmi dell'estremismo islamico che in questi anni ha evocato e sponsorizzato.
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