È morto il re, viva il re e il suo petrolio. Che è un mare di petrolio: riserve provate per 267 miliardi di barili, una produzione di greggio da 9,7 milioni al giorno, 8,6 milioni esportati, una capacità produttiva da oltre 12 milioni; una disponibilità finanziaria che si consuma ma ancora capace di imporre e sostenere un vertiginoso ribasso dei prezzi al barile per impedire che l’America (geopoliticamente un alleato) invada i mercati con il suo shale oil.
Il monarca di tanta determinazione petrolifera è Salman bin Abdulaziz al Saud, 80 anni, forse qualche anno di più, fino a ieri ministro della Difesa e ora subentrato ad Abdullah, morto all’età di 91 anni: forse qualcuno di più. In quasi mezzo secolo da governatore di Riad, Salman aveva trasformato poco più di un grande accampamento beduino in una metropoli da sette milioni di abitanti. Nel frattempo era stato il primo a finanziare i mujaheddin afghani nella loro guerra contro gli occupanti sovietici: 25 milioni di dollari l’anno.
Famoso per la sua onestà, per i buoni rapporti con l’Occidente, per essere il padre di Sultan, il primo astronauta musulmano in orbita nel 1985 col Discovery, e del più giovane Khaled, il primo pilota saudita a bombardare le postazioni dell’Isis in Iraq, Salman e la sua famiglia controllano la gran parte dei giornali sauditi. Famiglia in questo caso è intesa come sotto-famiglia. C’è quella grande dei 22mila principi al Saud, figli, nipoti e pronipoti di Abdulaziz, il fondatore della nazione; ci sono le decine più influenti, come quella di Salman, ognuna delle quali fa capo a uno dei poco meno di 50 figli di Abdulaziz; e le migliaia di altri eredi minori, frutto di matrimoni misti, eredi progressivamente sbiaditi ma sempre consanguinei rivendicativi del fondatore.
Chiedersi tuttavia che genere di monarca sarà Salman, se sarà più o meno riformatore, più o meno amico degli Stati Uniti e fino a quale punto si impegnerà nella lotta all’Isis, è quasi una perdita di tempo. Il nuovo re è sopravvissuto a due principi ereditari e anche lui è anziano e malato. Soffre di Alzheimer e qualche anno fa Abdullah aveva pensato di toglierlo dalla linea dinastica. Più importante è capire che genere di monarca sarà Muqrin, vice primo ministro e principe ereditario: ha 71 anni, quasi un giovanotto, l’ultimo nella linea diretta degli eredi di Abdulaziz. La regola della successione voluta dal fondatore continua a prevedere, ininterrottamente dal 1953, che al primo dei suoi figli succeda il secondo più anziano in vita, e così fino all’ultimo.
Per questo, dopo 62 anni, l’atto ancora più importante, praticamente storico, di quanto non sia la successione automatica di Muqrin, è la designazione del nuovo vice principe ereditario. La carica era stata inventata da Abdullah pochi anni fa. Già Muqrin lo era. Ma Mohammed, 55 anni, ex capo dei servizi segreti e ministro degli Interni dal 2012, il nuovo vice principe ereditario, è il primo a non essere figlio di Abdulaziz ma di Nayef, figlio di Abdulaziz, ex ministro degli Interni, morto poco più di due anni fa quando era principe ereditario. Il giorno in cui diventerà re, Mohammed bin Nayef bin Abdulaziz al Saud sarà il primo della terza generazione.
Nel 1933, quando furono scoperti i primi giacimenti di petrolio, il vecchio Abdulaziz decise di non chiedere aiuto alla Gran Bretagna. Come prima potenza coloniale nella regione, temeva avrebbe pensato solo ai suoi interessi. Così affidò i diritti di prospezione a una compagnia della giovane America, la Standard Oil of California che poi avrebbe cambiato il nome in Chevron. Potendo tornare indietro forse Abdulaziz si sarebbe tenuto gli inglesi. In ogni caso, da allora ogni decisione dei re sauditi, ancor più ogni successione, solleva i timori dell’Occidente.
Salman, Muqrin e in un giorno ancora lontano Mohammed, non cambieranno le politiche petrolifere né le linee geopolitiche: perché è in una continuità ai limiti della stagnazione che la monarchia saudita trae la sua forza. Da quando gli americani hanno invaso l’Iraq nel 2003, consegnando il Paese agli sciiti, Riad è il pilastro dello status quo; il ruolo è diventato ancora più evidente con le Primavere. In tutti questi anni Abdullah è stato l’equivalente arabo di Metternich, il regista della restaurazione. Così saranno i suoi tre successori designati, compatibilmente con i mutamenti regionali.
Ma la restaurazione, contenere l’Iran sciita, finanziare al-Sisi, impedire che i semi della rivolta si diffondano anche in Arabia Saudita, costa. Tutto questo è stato pagato da un surplus petrolifero colossale. Ora di colossale ci sono soprattutto le spese che dal 2010 sono cresciute del 52%: 265,2 miliardi di dollari. Il barile a 25 dollari farebbe sparire lo shale oil americano dai mercati. Ma a quel prezzo, secondo il Fondo monetario internazionale, se non taglia le sue spese, l’Arabia Saudita potrebbe fallire nel 2018.
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