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Atene, viaggio tra le macerie dell’austerity

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IL REPORTAGE

Atene, viaggio tra le macerie dell’austerity

«I greci sono finora la specie d’uomini meglio riuscita. Più bella, più invidiata, più seduttrice verso la vita». Friedrich Nietzsche non era uomo incline ai complimenti.

E se oggi passeggiasse intorno piazza Omonia, l’ombelico di Atene, una spianata di cemento a semicerchio con gli studenti e i pensionati che si stiracchiano al sole, si pentirebbe amaramente di quelle parole. Di quella seduzione non è rimasta neppure la cenere. I volti dei greci sembrano maschere dolenti scavate nella cera. L’attesa, questa volta, non ha nulla di contemplativo. C’è un pezzo della generazione tra i quaranta e cinquant’anni che suo malgrado è il più convincente testimonial dello stato della Grecia e della periferia dell’Unione: capelli unti, pantaloni bucati e piedi che strisciano per tutto il giorno tra saracinesche di negozi sbarrate da anni e la ricerca di un pasto caldo tra le decine di mense dei poveri, dormitori pubblici, centri in cui si distribuiscono viveri, vestiti, coperte e beni di prima necessità, una sorta di mappa della crisi, che - vendetta del lessico - origina dal greco krisis, scelta. Sono i fantasmi di Maastricht, le vittime di un disegno politico seppellito prima che sbocciasse. Unione europea e thanatos. Antoniadis Christos esce a passo veloce da uno dei centri di assistenza del Pyreos e scarta come uno slalomista gli immigrati immobili come birilli con le mani in tasca.

Nella busta di plastica bianca porta un panino e una teglia monoporzione di alluminio sigillata: «Polpette e riso», dice anticipando la domanda. Fino al 2009 Antoniadios, 57 anni, era il rispettabile proprietario di un supermarket a Salonicco. Prima cala le saracinesche, poi la malasorte gli uccide la moglie. Racconta: «Cerco lavoro da cinque anni e ho solo collezionato porte in faccia. Domenica voto il partito comunista ma la colpa di questa situazione è tutta della corruzione e della politica».

Alexis Tsipras lo sa e maieuticamente giovedì sera in una piazza Omonia stracolma di bandiere faceva la levatrice della nuova Grecia sulle note di Bella Ciao: «Mani pulite, decisioni chiare e posizioni nette: Syriza è la grande sfida di cui ha bisogno l’Europa». Sembra un crudele gioco semantico, ma anche la parola Europa appartiene alla mitologia greca: era una principessa fenicia di cui s’innamorò follemente Giove, che si trasformò in un toro per rapirla e portarla a Creta. Nessuno, di questi tempi, sembra essere innamorato dei greci. Le parole sono codici sui quali l’Europa ha fondato la sua identità. Eppure la Atene contemporanea ha l’aspetto lugubre di una città intirizzita, sospesa, con un esercito di senza parole e senza qualcosa: casa, assistenza sanitaria, lavoro, cibo. Consci della drammaticità della situazione, un anno fa le Caritas italiana e greca si sono gemellate per far fronte all’emergenza sanitaria e umanitaria. Stanislao Stouraitis, studi di Teologia a Roma, è l’uomo che coordina gli aiuti per conto della Caritas: «In Grecia possiamo contare su 300 volontari, 150 dei quali ad Atene. Ma siamo pochi, le nuove povertà dilagano e reclamano mezzi ben più imponenti di quelli di cui disponiamo: questa dovrebbe essere la nuova terra dei missionari».

La Grecia come l’Africa e il Sud est asiatico. La pediatra Catherine Mourtzopoulou racconta della recrudescenza della tubercolosi, di casi montanti di malnutrizione infantile, di un’assistenza modellata solo su chi può pagarsi un’assicurazione sanitaria, di famiglie senza soldi per il gasolio da riscaldamento che dormono tra muri di casa tappezzati da colonie di muffe. Mentre lo Stato lesina la carta Aporias, la copertura sanitaria provvisoria - va rinnovata ogni anno - per chi è senza lavoro e i loro figli. Stouraitis chiude il cerchio con un dato che dovrebbe allarmare tutti, compresa l’onnipresente troika (Unione europea, Bce e Fmi): «In questo momento nel nostro Paese ci sono 450 mila bambini malnutriti». I clochard, invece, non si contano più. La sera, le strade del centro che si snodano ai piedi dell’acropoli illuminata a giorno, si trasformano nel ricovero di centinaia di senza tetto. Sotto i portici, a pochi metri da Monastiraki square, un uomo con le gambe già infilate nel sacco a pelo si pettina lentamente i capelli lunghi e brizzolati come se il dolore di quella condizione gli fosse assolutamente estraneo. Forse è per questo che i greci sono gli inventori della tragedia. Burzari Fnixos, camicia di jeans e sigaretta perennemente al labbro (la Grecia è un Paese di fortissimi fumatori), è il Caronte che con naturalezza traghetta i poveri nel labirinto dell’assistenza comunale. È lui che distribuisce 1500 coupon al mese, qui ribattezzati couponia, di cinque euro ciascuno con i quali si può comprare da mangiare nei supermercati. «Ne servirebbero 20, 30 mila, altro che 1500. Nella settimana della distribuzione dei buoni gli ateniesi si accalcano qui fuori già dalle sei del mattino».

Dal Pyreos al Metauxorio, una zona semicentrale in cui svetta una palazzina bianca di architettura simil razionalista con di fronte la nuova metropolitana inaugurata per le Olimpiadi del 2004, l’inizio della fine. Un gruppo di donne gitane con le sigarette tra le dita è seduta tra i gradini in attesa della distribuzione di un pezzo di pane e una bottiglia di latte. Da lontano arrivano padre e figlio mano nella mano. Il papà si chiama Giorgio Dais, una felpa nera macchiata di vernice con la scritta ”graduate”. Dice: «Sono un piastrellista senza lavoro. L’edilizia qui è morta e sepolta insieme con tutto il resto. Cerco di racimolare un po’ di farina e qualche barattolo di pomodori da portare a casa. Come viviamo? Noi sopravviviamo. Mia moglie, quando la chiamano, fa le pulizie».

Charalambos, il figlio tredicenne di Giorgio, una felpa gialla, gli occhiali rossi e il viso immobile, non si sogna di staccare le mani e lo sguardo da suo papà. L’Unione europea vista con gli occhi rassegnati di questo ragazzino ha qualcosa di raggelante. Solo una domanda lo distoglie dal silenzio e gli provoca un sorriso timido: «Da grande voglio fare l’astronauta». Forse per scappare a distanze siderali da questa Atene, da questa Grecia e da questa Europa.

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