Certamente il partito (il Pd) che rappresenta il 45% dei grandi elettori del presidente della Repubblica non poteva non assumersi la prerogativa di proporre il suo candidato per quel ruolo. Nel farlo, tuttavia, è stato condizionato più dal suo passato che dal suo futuro.
Dietro il metodo e la strategia utilizzati per giungere alla candidatura di Sergio Mattarella (che è un ottimo candidato) si è manifestata una preoccupazione esclusiva da parte del Pd. Evitare il ripetersi del dramma dell'aprile 2013, quando il partito si divise tra diversi candidati, fino al punto da spaccarsi di fronte alla candidatura del suo fondatore, Romano Prodi. Ciò che successe in quel mese ha poi cambiato la storia del partito (e della legislatura appena nata).
In quell'occasione morì il partito oligarchico dei capetti in costante rivalità, proprio per effetto della crisi di fiducia che era esplosa tra il partito e il paese. Il Pd di oggi è un partito radicalmente diverso da quello di allora. È un partito del leader divenuto inospitale verso la logica delle correnti e delle fazioni del passato. Inevitabilmente, il partito del leader ha presentato un unico candidato ai suoi grandi elettori, un candidato che rispondesse primariamente alla necessità di ricucire il rapporto di fiducia tra di esso e l'opinione pubblica.
Ricostruire quella fiducia è, per Matteo Renzi, una condizione indispensabile per mantenere il controllo del governo. Per questo motivo, occorreva suturare la ferita del 2013, dimostrando agli elettori che lui è stato in grado di ri-portare ordine tra i suoi, evitando così gli errori dei suoi predecessori. D'altra parte, così succede anche in altri paesi. Negli Stati Uniti, ad esempio, i candidati presidenziali che emergono vincenti dalle primarie sono quelli che con più determinazione si sono distinti dai presidenti precedenti.
Ma se è comprensibile la preoccupazione che ha guidato la scelta di Matteo Renzi, è bene tuttavia non sottovalutarne le implicazioni sistemiche. Quella scelta è stata maturata all'interno del Pd, non già all'interno della maggioranza di governo, tanto meno all'interno della maggioranza parlamentare che ha finora sostenuto il processo delle riforme istituzionali.
Naturalmente ogni problema ha una sua soluzione. Il governo quotidiano e la riforma del sistema possono basarsi su maggioranze diverse, così come l'elezione del presidente della Repubblica può scaturire da convergenze impreviste tra grandi elettori di partiti diversi. Tuttavia, è indubbio che una relazione virtuosa tra questi passaggi istituzionali avrebbe sicuramente favorito un loro esito positivo. L'elezione del presidente della Repubblica da parte di una maggioranza principalmente di sinistra avrà probabili conseguenze negative sulla fiducia reciproca tra il Pd e Forza Italia quando ripartirà (a breve) la discussione parlamentare sulla riforma del bicameralismo. È ovvio che le due cose sono distinte, ma è anche ovvio che nelle scelte di sistema la convergenza tra forze opposte costituisce una basilare condizione di legittimità.
Renzi e i suoi sanno che nel partito che sono riusciti a ricomporre in occasione dell'elezione presidenziale continuano ad agire gli avversari irriducibili delle riforme strutturali del paese. L'asse di sinistra che si è formato in occasione dell'elezione presidenziale non potrà dunque reggere la strategia riformatrice che riprenderà dopo l'elezione presidenziale. Quella strategia, per avere successo, richiederà il sostegno di forze esterne a quell'asse. Non solo per ragioni di legittimità, ma soprattutto per ragioni di necessità, Renzi non potrà concludere il processo riformatore senza il sostegno parlamentare delle forze modernizzatrici del centro-destra.
Così, come si dice, si risolve un problema per crearne un altro. Per chiudere la vicenda del 2013 Matteo Renzi ha dovuto ricomporre il partito, ma la ricomposizione del partito può diventare una trappola quando riprenderà la riforma istituzionale ed economica. Da quella trappola si può uscire solamente avendo chiaro che i partiti sono un mezzo e non un fine. L'unità del partito non è un bene in sé, se è di ostacolo alla riforma del sistema. Il bene in sé è una democrazia italiana finalmente adeguata al XXI secolo, non un partito pacificato intorno alla preservazione di una democrazia che era già vecchia nel secolo precedente. Per troppo tempo, in Italia, si sono privilegiati i partiti alle istituzioni, gli interessi particolari a quelli collettivi. L'unità interna ai partiti è stata vista come il bene supremo cui sacrificare gli interessi del paese.
Questo paradigma concettuale deve essere combattuto con forza, in quanto da esso sono derivati molti dei nostri problemi nazionali. I partiti che abbiamo oggi sono parte del problema, non della soluzione. Se le riforme andranno avanti, essi si divideranno di nuovo al loro interno. Un esito necessario se si vuole adeguare il sistema partitico alle esigenze del governo del paese (e non viceversa). Se Renzi e suoi sono consapevoli di ciò, allora è bene che ricostruiscano i nessi che collegano trasversalmente i riformatori dei vari schieramenti. Un lavoro che dovrà beneficiare dell'aiuto del nuovo presidente della Repubblica, in continuità con il lavoro svolto dal presidente precedente.
© Riproduzione riservata