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Burundi, arrestato giornalista che denunciava intrighi dietro…

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il direttore di radio popolare africana

Burundi, arrestato giornalista che denunciava intrighi dietro l’omicidio di tre suore italiane

Per le autorità locali e la comunità internazionale il caso era chiuso, con un colpevole in prigione e un movente, anzi due: «l'odio verso i bianchi» e un'antica disputa terriera. Una tesi semplice che, però, convinceva pochi. Sicuramente non il direttore della Radio Popolare Africana (RPA), la più conosciuta delle radio del Burundi, Bob Rugurika.

Pochi giorni fa, il 20 gennaio, improvvisamente, proprio Rugurika - scrive Avantionline - viene prima convocato e poi arrestato dalle forze di sicurezza di Bujumbura, la capitale del Burundi, dopo aver diffuso la registrazione di un uomo che rivendica di essere uno degli esecutori materiali del triplice omicidio delle missionarie italiane, uccise lo scorso settembre. L'anonimo tira in causa il generale Adolphe Nshimirimana, ex direttore dei servizi burundesi e amico personale del presidente Pierre Nkurunziza. L'agenzia MISNA ha fatto sapere che il direttore di Radio Publique Africaine si sarebbe rifiutato di rivelare ai magistrati l'identità della fonte.

Secondo la testimonianza trasmessa da RPA, Nshimirimana sarebbe il mandante della strage: le tre sorelle, secondo la fonte, sarebbero state sul punto di denunciare pubblicamente i traffici del generale, proprietario di un ospedale nel quartiere dove sorge la missione. L'ex capo dello spionaggio, infatti, avrebbe importato dei farmaci spacciandoli come destinati alla parrocchia, ed evitando così le tasse doganali. Tra i farmaci, trasportati a bordo di veicoli della parrocchia, Nshimirimana avrebbe nascosto anche minerali contrabbandati illegalmente dalla vicina Repubblica Democratica del Congo facendoli passare come aiuti umanitari.

Ben 4 i capi d'accusa contro il giornalista che sin dall'inizio di questa storia aveva lanciato una campagna contro la versione ufficiale della polizia: «Concorso in omicidio», «tradimento della solidarieta' nazionale», «violazione del segreto istruttorio», e «occultamento di un reo». Si ammette, dunque, che possa esserci un reo che non sia il condannato.

Era il 7 settembre scorso quando nella periferia nord di Bujumbura, Lucia Pulici, 73 anni e Olga Raschietti, 80, due missionarie saveriane italiane, vennero barbaramente assassinate nella parrocchia della missione. La macabra scoperta venne fatta intorno alle 16 dalla sorella Bernadette Boggian ignara che, di li' a poco, sarebbe toccata anche a lei la stessa sorte.

A poche ore dai fatti, la polizia arresta Christian Claude Butoyi di 33 anni: il giovane, si dice, viene identificato per aver cercato di vendere il telefono di Olga ad un residente del quartiere che ha avvertito le autorita', insospettitosi dopo aver notato degli sms in italiano salvati in memoria. La polizia ha fatto sapere di aver ritrovato nella casa del giovane addirittura il sasso con cui l'assassino ha infierito su almeno 2 delle vittime. E la chiave del convento. La confessione di Butoyi arriva subito dopo: il giovane si attribuisce non solo l'eccidio, ma anche lo stupro delle vittime. Una tesi che, del resto, coincide proprio con la versione rilasciata dalla stessa polizia immediatamente dopo il ritrovamento dei corpi: si era detto, infatti, che l'assassino aveva violentato le vittime. Una versione, pero', smentita dalla parrocchia, per bocca dello stesso padre Mario, e dalle perizie dei medici dell'ospedale dove sono state analizzate le salme. Smentita, cosi' come la teoria della disputa sulla terra: il giovane, interrogato dalla polizia, avrebbe detto che il terreno sul quale e' edificata la parrocchia apparteneva alla sua famiglia. Una pura invenzione. Solo due delle tante, troppe, incongruenze di una storia sulla quale, come riferiscono le stesse missionarie saveriane, «i dubbi sono piu' delle certezze».

Subito dopo l'arresto, infatti, la comunita' del quartiere popolare di Kamenge, storicamente molto legata alla missione, e' infuriata e vorrebbe linciare il colpevole. Ma poi, quando il nome del fermato comincia a circolare, sulla rabbia prevale lo spaesamento. Christian Claude Butoyi e' una persona ben conosciuta dagli abitanti del quartiere, cosi' come dai religiosi saveriani: non un folle omicida, piuttosto, spiegano, una sorta di «scemo del villaggio», da tutti considerato incapace fisicamente, caratterialmente e mentalmente di concepire e di mettere in opera un gesto cosi' efferato. Insomma, un soggetto perfetto per essere usato come capro espiatorio, si mormora, soprattutto perche' non in grado di difendersi dalle accuse e fare fronte ad una situazione troppo piu' grande di lui.

Dal momento del suo arresto il giovane e' comparso in pubblico una sola volta, brevemente mostrato dalla polizia ai fotografi. Non una sola parola e' uscita dalla sua bocca, silenzio assoluto. Dal momento del suo arresto nessuno ha piu' avuto accesso all'imputato. «C'e' un silenzio totale da parte della comunita' internazionale, inclusi Governo italiano e Ue. Un caso sul quale, nonostante quello che vorrebbero farci credere, la verita' non e' stata nemmeno sfiorata. Questo silenzio irrita la comunita' locale e chi, in Burundi, lotta perche' sia fatta giustizia su questo come su altri casi», ha detto proprio Bob Rugurika, conosciuto difensore dei diritti umani, direttore della Radio Pubblica Africana, arrestato nei giorni scorsi dalle forze di sicurezza.

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