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Rischio Vietnam come nel 2006, ma opposizioni sfilacciate

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I numeri. Senato debole

Rischio Vietnam come nel 2006, ma opposizioni sfilacciate

I conti sono presto fatti. Con una maggioranza di 172 voti su un quorum di 161, ossia con 11 voti di margine, e con una minoranza del Pd piuttosto agguerrita che si conta in almeno 24 senatori (quelli che hanno votato l'emendamento Gotor contro i capilista bloccati), il Senato rischia di trasformarsi ogni volta in un Vietnam come ai tempi del governo Prodi del 2006-2008, quando per approvare i provvedimenti (spesso con la fiducia) venivano reclutati anche i senatori a vita. Il problema paradossalmente non sono tanto le riforme istituzionali (l'Italicum ormai è “in salvo”, visto che manca solo un altro sì della Camera e Matteo Renzi non a caso non perde occasione di ripetere che non ci saranno ulteriori modifiche), ma tutto il resto. Dalla delega fiscale alla Pubblica amministrazione alla scuola.

Tutto quello che passerà in Parlamento dovrà passare naturalmente anche per il Senato. E la rottura (almeno per ora) del patto del Nazareno non significa solo fine dell'alleanza su Italicum e riforma del Senato e del Titolo V, ma la fine di una sorta di gentlemen agreement che si è tradotto fin qui in qualche uscita strategica dall'Aula per far abbassare il quorum. Si tratta di uscite, va detto, che non sono mai risultate determinanti sui provvedimenti economici importanti, dalla Stabilità al Jobs act, sui quali il governo ha posto la fiducia. Ma se i senatori di Forza Italia cominceranno al contrario a votare contro su tutto, la musica potrà cambiare.
Basta riguardare a quanto accaduto la notte del 20 dicembre scorso, quando in sequenza sono state approvate la Legge di stabilità (162 voti), la Nota di variazione al bilancio (con 161 voti, sul filo del quorum) e infine il calendario dei lavori che incardinava in Aula l'Italicum. Solo in quest'ultimo caso i voti a favore di Forza Italia furono determinanti, dal momento che la dissidenza dem votò contro, ma sulla Legge di stabilità e sulla Nota di variazione al bilancio i senatori azzurri uscirono comunque dall'Aula assieme ai grillini (la motivazione fu la protesta contro l'accelerazione dei tempi). Nel caos di quella notte più di un senatore del Pd paventò il pericolo di non farcela per qualche voto, e cadere sul Bilancio avrebbe significato crisi di governo. Da qui l'attenzione rivolta in queste ore dallo stato maggiore del Pd ai numeri in Senato, tra la sacca dei senatori Gal (15 in tutto, di cui tre già votano stabilmente con la maggioranza) e tra i dissidenti del M5S (17 in tutto, anche se fra loro divisi in varie sottocorrenti). «Siamo aperti alla discussione e all'articolazione parlamentare di alcune forze politiche che hanno conosciuto situazioni di sofferenza», ammetteva ieri il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini pur ribadendo che una maggioranza c'è ed è autosufficiente.


Ma potrà bastare rivolgersi a Gal e agli ex grillini, o magari puntare su qualche senatore azzurro in linea con Denis Verdini e contrario alla rottura del patto del Nazareno? Non si rischia davvero di rivivere l'incubo del governo Prodi? I numeri sono quelli che sono, ma la situazione politica è completamente diversa, ragiona Giorgio Tonini, vicepresidente del gruppo democratico e membro della segreteria renziana. «Allora c'era un'opposizione molto compatta, quella di Fi-Udc-Lega guidata da una leadership forte e presente in Parlamento come quella di Silvio Berlusconi, e c'era da parte di questa opposizione compatta la ferma volontà di tornare presto alle urne sull'onda di sondaggi molto favorevoli al centrodestra. Ritorno alle urne puntualmente avvenuto dopo due anni, nel 2008, con la vittoria appunto della coalizione di centrodestra guidata da Berlusconi - dice Tonini –. Oggi la situazione è capovolta. Le opposizioni sono divise tra loro e spesso su opposte posizioni, tra Fi, M5S e Sel, e il centrodestra è imploso e naviga senza più leadership sicura». In questa situazione non è interesse di nessuno, tranne paradossalmente di Renzi se le riforme dovessero incagliarsi, tornare al voto. Anche gli oppositori interni di Berlusconi, e cioè Raffaele Fitto, hanno bisogno di tempo per conquistare il loro spazio. Opposizioni sfilacciate e paura del voto, dunque: queste le vere carte del prosieguo della legislatura. Aspettando che Berlusconi, passata l'irritazione per la vicenda Quirinale, torni a dare il suo supporto almeno su Italicum e riforme istituzionali.

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