I PUNTI
Creazione di una fascia
di sicurezza di 25 chilometri;
scambio di prigionieri e ripristino a Est delle funzioni
dello Stato centrale
IL NODO PIÙ DELICATO
Il documento parla
di «decentramento»
delle province separatiste
Merkel: «Nuove sanzioni
se accordo non funziona»
Come ammonisce François Hollande, l’unico del quartetto di Minsk che non parlava russo, “le prossime quarantott’ore saranno decisive”. L’ora zero è la mezzanotte di sabato: se sul fronte ucraino calerà il silenzio, il vertice sarà servito per trasferire la crisi dalle armi alla politica. Altrimenti, dice Angela Merkel, «non escludiamo di imporre altre sanzioni», e si tornerà a combattere. Il conflitto si allargherà perché quando la diplomazia è incapace di fermarla, una guerra non resta mai chiusa nel suo campo di battaglia.
Poco meno di quattro pagine e 13 punti sono il risultato di oltre sedici ore di trattativa senza pause fra tre presidenti e una cancelliera. L’accordo siglato nel Palazzo dell’Indipendenza, la piccola Versailles bielorussa che si è regalato Alexander Lukashenko, l’ultimo vero autocrate d’Europa, non è una pace. È solo un cammino verso quell’obiettivo: l’accordo non impone soluzioni, le indica affidandosi realisticamente alla buona volontà che ha portato a Minsk le parti in causa, compresi i capi dei separatisti ucraini. L’ultima maratona diplomatica paragonabile a questa, raggiunse una pace piena fra egiziani e israeliani: ma nel 1978 Carter, Sadat e Begin restarono chiusi a Camp David per 12 giorni. Poiché i tedeschi non mentono mai, la definizione migliore del vertice di Minsk è l’intelligente miscela di ottimismo senza entusiasmo di Angela Merkel: «Ciò che oggi abbiamo sul tavolo ci dà molta speranza». Tuttavia «non abbiamo illusioni: deve ancora essere fatto moltissimo lavoro ma c’è la possibilità reale di cambiare le cose per il meglio». In pratica: l’accordo militare prevede il cessate il fuoco lungo tutto il fronte dell’Ucraina orientale entro la notte fra sabato e domenica; a partire dai due giorni seguenti ed entro due settimane, tutte le armi pesanti devono essere allontanate da una fascia di sicurezza larga non meno di 25 chilometri; scambio di prigionieri, amnistia, ripristino momentaneo nelle province separatiste delle funzioni dell’amministrazione unitaria: pagamento delle pensioni, riavvio della rete bancaria, governi locali. Restano sul piano militare due punti caldi: la sacca di Debaltseve nella quale 8mila soldati ucrani sono assediati dai separatisti; e il confine orientale fra Ucraina e Russia dal quale passano anche gli aiuti militari per i ribelli. Chi lo dovrà controllare?
Poi c’è il dopo, il cuore del problema: le decisioni più politiche. Il parlamento ucraino dovrà “formalmente” stabilire lo status di quelle province; entro la fine del 2015 un nuovo assetto ne fisserà l’autonomia. Il documento approvato a Minsk lo chiama “decentramento”, Vladimir Putin “status speciale”: cosa significa esattamente? Per Petro Poroshenko, il presidente ucraino, è solo autonomia amministrativa, i russi pensano a repubbliche autonome: loro ne hanno 22 sul loro territorio.
È questo il dopo nel quale le distanze sono ancora lontane. Ma oltre a ciò che è stato scritto nel documento, conta quello che i quattro leader si sono detti. In fondo i 13 punti non sono molto diversi dai 12 che erano stati fissati nel precedente vertice di Minsk, a settembre. Ma allora c’erano solo ambasciatori, l’autorità più importante era la svizzera Heidi Tagliavini dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza europea. Ieri c’erano Angela Merkel e François Hollande, e i capi dei due fronti nemici, Putin e Poroshenko. Il primo ha ammesso che l’Ucraina non potrà tornare ad essere lo stato unitario precedente alla guerra; il secondo che la Russia rispetterà l’integrità territoriale dell’Ucraina. Bisogna crederci, è un atto di speranza più che di fede. Appena arrivato a Bruxelles da Minsk, Poroshenko ha denunciato una nuova offensiva militare russa nelle province separatiste.
Qualsiasi cosa sia stato deciso, per Putin non sarà un problema ottenere il consenso della sua gente: l’opinione pubblica è sotto controllo. Per Poroshenko è più difficile far passare concessioni ai russi. In suo soccorso ieri è venuta la direttrice del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde con un aiuto immediato da 17,5 miliardi di dollari, parte di un pacchetto da 40. Salverà l’economia disastrata dell’Ucraina. In cambio naturalmente di una serie di riforme lacrime, sudore e sangue che Lagarde definisce «programma realistico» e il premier Arseny Yatseniuk «molto difficile». Dev’essere stata l’unica volta nella vita in cui Yatseniuk, un falco e nazionalista, ha rimpianto di aver lottato per uscire dalla sfera d’influenza della Russia: Putin non gli avrebbe mai chiesto di fare riforme economiche, a lui gli oligarchi ucraini andavano benissimo.
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