Michele Ferrero e i suoi prodotti. La Nutella, prima di tutto. Michele Ferrero e la sua azienda. Michele Ferrero e la sua comunità. Alba. Pochi imprenditori italiani del Novecento hanno saputo incarnare meglio l'evoluzione del nostro Paese. Dalla società agricola alla società industriale. Dalla povertà, quella di una Italia uscita in ginocchio dalle macerie della guerra, alle prime prove di ricchezza, quasi leggera e senza preoccupazioni, degli anni Cinquanta e Sessanta: dalla disperazione contadina ricostruita nella Malora di Beppe Fenoglio al Boom, quando gli italiani hanno iniziato a pensare di potere essere – tutti – felici. Dal piccolo mondo degli anni Quaranta – le Langhe, per cui già il mare ligure era un miraggio – ai grandi mercati internazionali, conquistati anno dopo anno – decennio dopo decennio – con il meticoloso culto per il prodotto e con una straordinaria capacità di costruire strategie e di pensarsi proiettati – da Alba – in un mondo sempre più vasto e più integrato. Se esisterà mai un romanzo del capitalismo italiano, uno dei primi capitoli non potrà che riguardare lui. Nato nel 1925 a Dogliani – uno dei centri simbolo del Sud del Piemonte, luogo carico di memorie einaudiane –, nell'immediato dopoguerra è uno dei perni della crescita dell'azienda di famiglia, dove assume la leadership poco più che trentenne. È lui, nella classica identificazione fra impresa e imprenditore, a industrializzare l'azienda – commerciale e artigianale – che gli hanno lasciato in mano.
E lo fa mostrando un profilo di imprenditore completo. All'interno della fabbrica. E al di fuori della fabbrica. Prima di tutto, stringe un legame fortissimo con i suoi dipendenti, per i quali l'impresa diventa quasi una religione laica. Quindi, costruisce un rapporto di lungo periodo con i fornitori delle materie prime: non importa che siano i contadini del Basso Piemonte, che siano i commercianti internazionali – oggi si direbbero i “trader di commodity”, e il signor Michele avrebbe riso a questa espressione – o che siano i gestori dei noccioleti che lui ha fatto piantare all'estero (per esempio, in Cile) per alimentare tutto l'anno – con prodotti freschi - la fabbrica di Alba. Infine, mostra – fra i primi - una capacità finissima di comprensione dei meccanismi della società dei consumi di massa, facendo un ricorso massiccio alla pubblicità. In particolare, investe sulla televisione, che dagli anni Cinquanta avrebbe cambiato i costumi (ma, soprattutto, i consumi) degli italiani. In questo sua comprensione – la Tv, l'esposizione mediatica dei prodotti, l'effetto moltiplicatore sulle vendite – c'è una delle più interessanti contraddizioni di Michele Ferrero, uomo riservato come soltanto i piemontesi di altri tempi sanno essere. Da un lato sviluppa – da imprenditore “di prodotto” – una attenzione maniacale per ogni linea di nuovo cioccolato e ogni linea di nuova bevanda creando intorno a essa una sorta di aura da segreto industriale. E, questo, è coerente con la natura di un uomo del tutto alieno all'esposizione pubblica: proverbiale il dispiacere di Enzo Biagi, che gli era amico, per non avere mai ottenuto una intervista da lui. Dall'altro, appunto, la società dei consumi e dei mezzi di comunicazione di massa – che ogni cosa spettacolarizzano e ogni cosa attraggono, e che tanto hanno fatto per il successo dell'azienda – non hanno mai scalfito la natura insondabile e appartata del patriarca. Il quale, in una distanza mai scontrosa ma sempre molto ben educata, ha scelto negli anni di vivere una solitudine personale che, vista in retrospettiva, appare coerente con la sua decisione strategica di fare sviluppare la sua azienda soprattutto per linee interne. Una crescita graduale e progressiva che, peraltro, gli ha permesso – fin dagli anni Sessanta e Settanta – di non dovere sviluppare rapporti “incrociati” con il capitalismo e la politica italiana: fra i pochi passaggi di questo tipo che si ricordano c'è la sua partecipazione nel 1985 alla cordata anti Cir per l'acquisizione della Sme – favorita dall'allora presidente del Consiglio Bettino Craxi – assieme alle famiglie Fossati, Barilla e Berlusconi. In questa sua sostanziale distanza, è stato davvero come la maggioranza degli imprenditori del Novecento italiano.
Appassionato ai suoi prodotti, alla sua azienda e alla sua gente. Alieno dalle logiche del potere – mai subite nella loro fascinazione né mai cercate in prima persona nei loro vantaggi – e interessato solo alle proprie cose. Dentro alla fabbrica. Dove ha contribuito a formare un'autentica scuola manageriale, che ha reso gli stabilimenti e le sedi Ferrero nel mondo esempi di efficienza gestionale. Nei laboratori. Dove ha sempre assaggiato lui in prima persona i suoi prodotti. Negli uffici in cui si decidevano le strategie. Dove non è stato in alcun modo afflitto da un complesso di inferiorità: mai gli è interessato che il fatturato della sua azienda fosse comparabile all'utile della Nestlè, che spesso ha guardato con gola ad Alba. Né, nel 2010, si è fatto irretire dalla presenza sul mercato anglosassone e sui mercati emergenti dagli inglesi di Cadbury, un'azienda che poteva interessare alla Ferrero, ma alla cui acquisizione è stato lo stesso Signor Michele e a dire di no, di fronte alla natura dei suoi prodotti da mass market, molto lontani dalla filosofia di Alba. Restano davvero tre immagini, per cogliere l'essenza di uno dei principali imprenditori italiani del Novecento. La prima immagine è l'alluvione del 5 novembre 1994, quando il Tanaro porta via mezza Alba. E i dipendenti – tutti – vanno a spazzare via il fango dalla fabbrica e dagli uffici. La seconda immagine è del 27 aprile 2011: i funerali del figlio Pietro, l'erede morto a 48 anni, quando intorno alla famiglia Ferrero si stringe come un gomitolo caldo tutta Alba. La terza immagine è il sorriso sereno che chiunque, in questi anni, sia andato alla Fondazione Ferrero – con le sue mostre d'arte e i suoi interventi nel sociale – non ha potuto non notare negli anziani dell'azienda, che vi si impegnano con una passione e un amore che restano due fra le migliori eredità del signor Michele.
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