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L'azienda comunità con il welfare in dialetto

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l’analisi

L'azienda comunità con il welfare in dialetto

Quella della Ferrero è stata una sorta d'impresa-comunità, tanto essa è rimasta legata a quell'angolo della provincia piemontese in cui era nata, benchè fosse divenuta nel corso del tempo la più grande multinazionale dolciaria del mondo dopo la Nestlè. Questa simbiosi si doveva non solo a quel po' di nocciole la cui lavorazione aveva segnato l'esordio delle fortune della Ferrero; si doveva anche alla interiorizzazione da parte di Michele, (successo nel 1949 al padre nella gestione, insieme allo zio Giovanni, dell'azienda) dei caratteri salienti di una realtà dura e terragna, come quella delle Langhe. Che consistevano fondamentalmente in una religiosità del lavoro tipicamente contadina, copia di gente abituata da sempre ad affrontare ogni genere di fatica pur di non mangiare polenta e miseria. Prima della guerra la gente del posto aveva tirato avanti alternandosi al lavoro tra le vigne e i gelsi maledicendo la grandine e l'arsura. Ma da almeno vent'anni la trattura della seta versava in cattive acque e l'albese era divenuta una terra di esodo per eccellenza, chi verso Torino chi verso Genova erano stati in molti tra i più giovani ad abbandonare le colline dell'alta Langa, spoglie di vigneti e povere di altre colture o le minuscole cave di pietra, i telai per il lino e la canapa, le botteghe per la concia e i cappelli di pelo, sparsi intorno al centro principale.

L'industria impiantata nel 1946 dai Ferrero, figli di contadini di Farigliano, non aveva in sé nulla di rivoluzionario. L'intenzione di utilizzare nella produzione del cioccolato un surrogato come la nocciola portava l'impronta del periodo autarchico, quando erano state messe a coltura alcune pendici più alte dell'albese tra Cortemilia e Bossolasco dove la vigna faceva fatica ad acclimatarsi. E, per la trasformazione del prodotto su scala industriale, la manodopera disponibile era pur sempre quella del contado: ragazze da marito in soprannumero nelle minuscole fattorie familiari; minori, che giravano di cascina in cascina come “servi di campagna” senza salario; gente che all'inizio di ogni autunno faceva fardello delle sue poche cose per offrirsi in qualità di lavoratori stagionali oltre la frontiera con la Francia. Premeva tuttavia sul mercato una domanda disordinata di generi di conforto dopo tante restrizioni e le povere diete del periodo bellico; e l'impiego di una materia prima come la nocciola consentiva bassi costi di produzione e di vendita. La produzione si vendeva ancora a peso, soprattutto fra le botteghe dei paesi e dei piccoli centri. Ma si erano già delineate prospettive favorevoli alla formazione di un mercato di massa. E quella piccola pasticceria di Alba si era trasformata nel frattempo, moltiplicando i turni di lavoro e ingaggiando nuova manodopera, in un complesso con altri due stabilimenti a Pozzuolo Martesana presso Milano e a Lauro di Nola nelle vicinanze di Avellino. Ma il passo decisivo era stato compiuto con l'apertura nel 1956 di una fabbrica in Germania, ad Allendorf a cui aveva fatto seguito la creazione di una rete di filiali e di centri di produzione un po' in tutta l'Europa occidentale. Non si trattò tuttavia di un piano elaborato da uno staff manageriale. Essenziale fu piuttosto l'appoggio della Pontificia Opera di Assistenza, il collegamento con nuclei organizzati dell'emigrazione italiana all'estero, la possibilità in sostanza di avvalersi di certi canali tradizionali di penetrazione commerciale (familiari, paesani, di enti ricreativi e di soccorso) quasi come era avvenuto alla fine dell'Ottocento per le prime nostre esportazioni di confezioni tessili nei paesi dell'America Latina.

Se il segreto del successo della Ferrero nella sua espansione commerciale stava nelle personali valutazioni di Michele sulla qualità dei suoi prodotti che egli traeva sia da propri severi controlli in materia sia dai periodici sondaggi da lui indetti sulla media dei gusti delle massaie europee, l'altro fattore dell'ascesa dell'impresa albese alle vette dell'industria mondiale fu il suo costante attaccamento a un modello di gestione aziendale familiare-paternalistico, lontano dalla manualistica manageriale che andava per la maggiore. Di conseguenza relativamente diffusa continuò a essere nelle Langhe l'integrazione del salario industriale con i redditi da lavoro sui fondi coltivati nelle ore libere. Al mantenimento di questo sistema contribuì non solo la possibilità di contenere così la dinamica salariale ma una strategia aziendale incline alla conservazione dei tradizionali equilibri fra città e campagne entro gli orizzonti della parrocchia e del campanile. L'adozione di turni di lavoro tali da garantire la libera disponibilità di una parte della giornata per altre occupazioni e la prassi di assumere con contratto a termine un certo numero di persone nei quattro “mesi morti” della stagione agricola, favorirono questa sorta di part time farming della manodopera nei periodi della mietitura, del taglio dei fieni o della vendemmia.

Per il resto Michele amava dire che il welfare per i suoi dipendenti lo costruiva lui stesso (dalla sanità, al dopo lavoro, ai premi di produzione, all'assistenza agli anziani) trattando alla buona in dialetto con le sue maestranze. Si spiega perciò come un'impresa con una ventina di stabilimenti in quattro continenti avesse seguitato sostanzialmente a mantenere inalterati i suoi tratti distintivi originari ricalcati su un proverbiale buon senso e un sagace pragmatismo dell'ambiente contadino in cui aveva avuto i suoi natali.

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