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La vendetta e il falso mito del giustiziere

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La vendetta e il falso mito del giustiziere

  • –Andrea Vitali

Ma Cesare Lombroso, il padre della moderna criminologia, avrebbe saputo cogliere nel volto di Claudio Giardiello i segni della follia omicida, prima che esplodesse tra i corridoi del Tribunale di Milano?

Probabilmente sì, vista la capacità del medico antropologo di classificare tutto, in primis i responsabili delle condotte criminali; per ogni reato, dal furto all’omicidio, Lombroso aveva pronto un “tipo”, e se si imbatteva in qualcuno dall'apparenza normale, cercava di spiegare l'eccezione senza mettere in dubbio l'intero suo metodo.

Il problema è che Lombroso, e i suoi moderni eredi che da un volto cercano di predire i comportamenti, poco avrebbero potuto davanti alla determinazione di un uomo in cerca di giustizia.

Un senso di giustizia ovviamente distorto.

Sia ben chiaro, nessuna considerazione sul movente psicologico di Giardiello vuole oggi accostare a un assassino l’attenuante della follia: è troppo presto, e poi al vizio di mente penseranno eventualmente i suoi avvocati.

Ma qualcosa si può dire seppur in generale, su tragedie come questa.

Il disgraziato protagonista è persona che da sempre interpreta il mondo in bianco e nero, con un suo carattere rigido e sospettoso. Ogni vicenda gli capiti la legge con diffidenza, e se sorge un contrasto, in famiglia o sul lavoro, esso è la riprova dei suoi pensieri più negativi.

I soci non sono d’accordo con lui? È certo perché vogliono estrometterlo.

Si intraprendono le vie legali? Chiaramente i magistrati non prenderanno mai le sue difese.

Il suo avvocato chiede d’avere pazienza? Non può essere che la riprova di un accordo segreto stipulato alle sue spalle.

I giorni passano e le denunce aumentano, nella convinzione che saprà far valere le proprie ragioni; fino al punto in cui si persuade di non potere nulla contro il sistema.

Non resta che la vendetta, che deve consumarsi nella teatralità del gesto, colpendo da giustiziere proprio dove la giustizia gli è stata negata.

Esistono tragedie motivate dalla disperazione e dalla depressione.

Altre, come questa, in cui il motore sta nella rabbia e nella rivendicazione.

Nel primo caso il dramma termina con un suicidio, ultimo gesto d'aggressione.

Nel secondo chi ha ucciso non ha il coraggio di togliersi la vita, o magari nemmeno lo ritiene giusto.

Tutto questo Lombroso non l’avrebbe potuto prevedere.

Certo avrebbe chiesto d’essere nominato perito, alla ricerca di qualche anomalia che riconducesse un assassino a un animale.

Ma immaginiamolo al giorno d’oggi entrare in tribunale, la borsa di lavoro stretta in mano:il cefalometro, strumento principe tra i suoi oggetti di giudizio e misura, avrebbe certamente fatto scattare l’allarme creando la giusta confusione per fare sì che l'assassino, una pistola addosso, sfuggisse a ogni controllo. L’ipotesi è solamente romanzesca, quel tanto fantasmatica. Ma non fa molta invidia alla realtà, peraltro maestra di ogni fantasia, se si vuole dare credito all'ipotesi, invero sconcertante, di un malfunzionamento dei sistemi rilevatori di oggetti metallici, che gemono per un fermacapelli o un tagliaunghie. O che la macchina si sia fermata giusto, solo per l'assassino, sorta di mutazione puntiforme. In verità è quasi certo che nemmeno Lombroso avrebbe potuto rilevare nei tratti del soggetto quelli dell'omicida ma forse, visitandolo, gli avrebbe trovato la pistola addosso.

Oppure avrebbe trovato di che dire circa i sistemi di sicurezza. Ne discende allora che se Giardiello avesse giudicato i sistemi d’allarme del tribunale troppo efficaci, avrebbe atteso le sue vittime all’uscita. Era l’aprile di due anni fa quando Luigi Preiti, 49 anni, sparò a due carabinieri davanti a Palazzo Chigi. Anche lui voleva far sapere a tutti quanto fosse arrabbiato.

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