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La decontribuzione frena l’apprendistato

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Attualità

La decontribuzione frena l’apprendistato

L’abbattimento robusto dei contributi e una semplificazione delle regole, in vigore dallo scorso 7 marzo, stanno ridando centralità al lavoro a tempo indeterminato (a marzo i rapporti stabili sono saliti al 25,3% del totale delle nuove attivazioni - erano al 17,5% un anno prima).

I rapporti a termine, liberalizzati a maggio 2014 dal decreto Poletti, sostanzialmente reggono, e le imprese li adoperano, ora, con meno preoccupazioni rispetto al passato visto che sono state superate le rigidità introdotte dalla legge Fornero (nel Dlgs di riordino dei contratti, all’esame del Parlamento, si chiarisce che in caso di superamento delle percentuali di utilizzo scatta solo una sanzione pecuniaria e non più la conversione a tempo indeterminato).

Sull’apprendistato, invece, il Dl Poletti sembra non aver inciso più di tanto: questo contratto arretra ancora, e rappresenta il 2,6% delle attivazioni di marzo. Certo, con la decontribuzione triennale prevista per i contratti stabili era facile prevedere una “cannibalizzazione” dell’apprendistato, e molti contratti sono stati stabilizzati in tempo indeterminato proprio per beneficiare di questo sgravio. Così, analogamente, sta accadendo per i contratti a termine (in un solo mese ci sono state 40.034 trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato mentre a marzo 2014 le trasformazioni erano state poco più della metà, 22.116).

Ma rispetto ai rapporti a termine, il decreto Poletti (il dl 34) non ha avuto lo stesso coraggio di liberalizzare con forza anche l’apprendistato: è rimasto il paradosso di una legislazione concorrente con le Regioni, e non sono stati scalfiti i complessi adempimenti burocratici posti in capo all’azienda. Ora con il Dlgs di riordino dei contratti si semplifica, opportunamente, l’apprendistato, ma solo quello di primo e di terzo livello (quello scolastico, per capirsi, con l’obiettivo di importare in Italia il modello duale tedesco). Ma si guarda al dito: nulla si dice sull’apprendistato professionalizzante, il cosiddetto contratto di mestiere, che vale il 99% di tutto l’apprendistato. Potrebbe essere l’occasione di una semplificazione anche di questa tipologia di apprendistato, «con il riconoscimento per esempio - sostiene Arturo Maresca, ordinario di diritto del lavoro all’università La Sapienza di Roma - di un risparmio contributivo almeno equivalente a quello previsto per il contratto a tutele crescenti, dove non sussiste alcun obbligo formativo per l’impresa. Inoltre, sarebbero opportuni maggiori margini di flessibilità nella gestione del contratto, sia superando le percentuali di stabilizzazione, sia prevedendo verifiche intermedie e personalizzando in itinere il piano formativo individuale per tararlo alle concrete attitudini dell’apprendista».

In forte calo, a marzo, sono anche le attivazioni di contratti di collaborazione. Qui, a ben vedere, la riduzione va avanti da fine 2012, dopo la stretta operata dalla legge 92. Sulla materia sta intervenendo il Jobs act nel tentativo di ridurre le criticità, operando una netta distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. L’obiettivo è quello di contrastare l’abuso delle collaborazioni. Ma questa condivisibile finalità rischia, ancora una volta, di risolversi nell’impossibilità di utilizzare l’istituto contrattuale nei casi di rapporti autentici di collaborazione. L’ampio ricorso a principi generali (personalità, continuatività, ripetitività, eterorganizzazione con riferimento a tempi e luogo di lavoro, per far scattare la presunzione assoluta di subordinazione) rischia di determinare incertezza applicativa che richiederà l’intervento del giudice per essere risolta.

Vi sono margini «per ripulire le collaborazioni, per promuoverne un uso più corretto, meno esposto a contenzioso - aggiunge il professor Maresca -. Si potrebbe precisare che una collaborazione autentica è caratterizzata da un’organizzazione del lavoro concordata tra le due parti, per distinguerla dal lavoro subordinato, che invece soggiace alle direttive gerarchiche del datore di lavoro. In questo modo la collaborazione verrebbe comunque circoscritta, ma sarebbe utilizzabile liberamente senza rischi di contenzioso».