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Derivati, per il Tesoro conto da 16,9 miliardi in 4 anni

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Derivati, per il Tesoro conto da 16,9 miliardi in 4 anni

  • –Morya Longo

Domanda da un milione di dollari (anzi, da 16,9 miliardi di euro): perché il debito pubblico italiano continua a salire, sebbene i tassi d’interesse continuino a scendere? In mezzo alle varie risposte, dalle griglie di numeri pubblicati dall’Eurostat ne emerge una inedita: la colpa è in parte dei derivati stipulati dal ministero del Tesoro. Negli ultimi 4 anni, cioè dal 2011 al 2014, lo Stato italiano ha infatti subìto un aumento del debito pubblico di 16,95 miliardi di euro solo a causa dei contratti derivati che avrebbero dovuto “coprire” il debito stesso dai rischi. Non si tratta di costi teorici: si tratta di soldi veri, in gran parte effettivamente usciti dalle casse dello Stato, che hanno aumentato il fabbisogno e dunque il debito.

Insomma: i derivati, che avrebbero dovuto proteggerci, in realtà ci hanno pugnalato alle spalle. E il motivo è in parte legato alla drammatica crisi dello spread, che tra il 2011 e il 2012 ha costretto l’Italia a usare anche i derivati come “ancora” di salvezza. Sta di fatto che l’Italia, secondo anche i calcoli di Bloomberg, in questi 4 anni da sola ha “pagato” per i derivati più di tutti gli altri Stati dell’Unione europea messi insieme.

Derivati boomerang

Andiamo con ordine. Com’è noto il nostro Paese non solo ha un gigantesco debito pubblico (ben oltre i 2mila miliardi di euro), ma ha anche una gran quantità di derivati: contratti che dovrebbero servire per coprire lo Stato da rischi vari, come quelli dell’oscillazione delle valute o dei tassi d’interesse. Ammontano a 159 miliardi di euro di valore nominale e, secondo i dati ufficiali del Tesoro, a fine 2014 avevano un valore di mercato negativo per lo Stato pari a 42,6 miliardi (come ricordato ieri sul Sole 24 Ore). Ma se questi 42 miliardi rappresentano perdite teoriche, che si concretizzerebbero qualora venissero chiusi, gli stessi derivati negli ultimi anni hanno prodotto anche perdite reali per 16,95 miliardi. Questo effetto, insomma, c’è già stato. E, almeno in piccola parte, ha contribuito alla massiccia dose di austerità che gli italiani hanno subìto.

I numeri arrivano da Eurostat e dall’Istat, nelle nuove tabelle che hanno i nuovi principi contabili SEC2010. Nel solo 2014 i flussi di interessi causati dalle operazioni in derivati (swap e forward rate agreement) hanno “portato via” allo Stato ben 3,6 miliardi di euro. Si tratta di soldi effettivamente “spesi”, cioè usciti dalle casse pubbliche per via dei flussi di denaro che lo Stato ha scambiato con le banche d’affari con cui ha stipulato i derivati. Il saldo negativo diventa però di 5,5 miliardi nel 2014 se a questi 3,2 si sommano anche i costi (pari a 1,8 miliardi) che lo Stato ha sopportato per operazioni straordinarie: per esempio per la ristrutturazione di alcuni contratti (soprattutto quelli di duration). Questi 1,8 miliardi non sono stati effettivamente spesi dallo Stato, ma hanno comunque aumentato il debito pubblico: dunque hanno contribuito a formare quella gigantesca montagna da oltre 2mila miliardi. Morale: se non avessimo avuto i derivati, nel 2014 il debito pubblico sarebbe stato di 5,5 miliardi più basso.

A colpire non sono tanto i numeri, che su un debito così gigantesco in fondo pesano relativamente. A lasciare a bocca aperta è piuttosto il confronto con gli altri Paesi: perché nessuno ha speso tanto con i derivati. Prendiamo ad esempio solo i tre anni che vanno dal 2011 al 2013, nei quali in Italia i derivati hanno pesato per 11,5 miliardi effettivi. Nello stesso triennio, invece, in Germania i derivati hanno prodotto un “guadagno” (dunque minor debito) per 556 milioni e in Francia per 3,2 miliardi. E anche in un Paese come la Spagna, che ha subìto la stessa crisi del debito tra il 2011 e il 2012, i derivati non hanno proporzionalmente fatto così male come a noi: Madrid non ha “guadagnato” come Parigi e Berlino, ma ha registrato un costo sui derivati di appena 379 milioni. Insomma: in Italia i derivati hanno avuto un effetto concreto sui conti pubblici rilevante, mentre all’estero no. È vero che la situazione italiana è particolare, data la mole del debito (è più piccolo in Spagna) e la virulenza della crisi nel 2011. Eppure i numeri scavano veramente un solco profondo tra Italia e resto d’Europa: se si prova a dire che ai tecnici del ministero dell’Economia che questi dati rivelano una «patologia», loro rispondono che rivelano una «peculiarità».

La realtà dei fatti

La questione però non è di semantica. «Questi costi derivano probabilmente dalle rinegoziazioni dei derivati durante gli ultimi anni oppure dall’estinzione di alcuni contratti con la conseguente apertura di altri come le swaption», osserva Nicola Benini, consulente indipendente e partner di Ifa Consulting. Il Tesoro, contattato dal Sole 24 Ore, mette le mani avanti: «Evidentemente negli altri Paesi europei ci sono state meno rinegoziazioni negli ultimi anni, anche per le differenze tra i debiti pubblici». Ma proprio questo è il punto: perché l’Italia ha rinegoziato così tanti derivati, che hanno causato così grandi perdite? Perché l’ha fatto solo l’Italia e non la Spagna o la Francia?

Il motivo è probabilmente in parte legato alla struttura del nostro debito. Ma in parte anche alla grave crisi che nel 2011 ha colpito il Paese: una crisi senza precedenti che rischiava di portare l’Italia in default. E che il Tesoro, per limitare i danni, ha gestito anche facendo una sorta di "baratto” con le banche internazionali: da un lato loro hanno continuato a sottoscrivere titoli di Stato in asta, evitando al Paese il peggio, dall’altro il Tesoro ha rinegoziato con le stesse banche un po’ di contratti derivati esponendosi a rischi e possibili perdite future. Quei 16,9 miliardi, ma soprattutto la parte causata dalle rinegoziazioni, sono forse la dimostrazione che l’Italia si è salvata non gratuitamente.

m.longo@ilsole24ore.com

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