PALERMO - Dopo i 10 trovati nell'inverno '96 nella villa bunker frequentata da Giovanni Brusca, secondo le soffiate giunte a investigatori e inquirenti, mancavano ancora cinque missili all'appello e l'obiettivo principale era sempre lo stesso: colpire l'allora capo della Procura di Palermo Giancarlo Caselli. Fonti investigative e alcune dichiarazioni del pentito Gioacchino La Barbera, gestito dal pm Alfonso Sabella, lo avevano confermato o avevano aggiunto particolari interessanti sul rischio di clamorosi attentati che avrebbero potuto mirare anche al cuore del Palazzo di Giustizia, visto che colpire in maniera diversa i magistrati superprotetti (come insegna l'attentato di Capaci) era impossibile.
Fu così che tra marzo 1996 e luglio 1997, un palazzo di fronte al Tribunale e un altro che puntava alla Torre di 8 piani nei pressi del Parco della Favorita, dove Caselli viveva isolato e blindato, furono radiografati con estrema discrezione da uomini dei reparti speciali della Squadra mobile di Palermo, a caccia dei missili. «L'esito delle ricerche – dichiara al Sole-24 Ore Sabella, oggi assessore alla Legalità del Comune di Roma – fu negativo. Prima di allora ne trovammo complessivamente 13. Oltre ai 10 a San Giuseppe Jato il 27 febbraio 1996 e ai due sequestrati a Misilmeri nel luglio '97, ne trovammo un altro».
Nel giorno del 23esimo anniversario della morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie e di tre agenti di scorta, continuano ad emergere particolari sulla strategia del terrore di Cosa nostra successiva alle stragi dei primi anni Novanta. Storie che si legano alle attuali polemiche sulle misure di sicurezza per alcuni dei magistrati esposti nella lotta ai sistemi criminali. Nino Di Matteo, pm del processo sulla trattativa Stato-mafia, continua ad attendere il dispositivo da montare sulle auto di scorta, in grado di annullare le frequenze dei radiocomandi capaci di innescare ordigni esplosivi.
I missili che la Squadra mobile di Palermo stavano cercando erano di una potenza impressionante e si annodano al racconto di un altro pentito, Gaspare Spatuzza, che a dicembre 2009, nel Tribunale di Torino, racconterà che la lettera anonima giunta nell'agosto ‘93 alla Procura di Palermo e che preannunciava un missile terra-aria per Caselli, non era frutto della mente di un mitomane.
Dopo il ritrovamento della santabarbara a San Giuseppe Jato e prima del ritrovamento a Misilmeri, la Squadra mobile di Palermo fu indirizzata verso due obiettivi: una palazzina di fronte al Tribunale e un'altra palazzina che in linea d'area si trovava di fronte all'abitazione di Caselli. «Nel periodo a cavallo tra il '96 e il '97 fui informato della ricerca non ancora conclusa di un ingente apparato di armi pericolosissime – ricorda al Sole-24 Ore Caselli – ma sapevo che le indagini erano in mani sicure».
Le attività erano frenetiche perché si temeva che almeno un missile fosse a guida infrarossa: una miscela micidiale di mercurio e cadmio. A tranquillizzare, solo in parte, gli investigatori, il fatto che queste testate hanno una scadenza (circa 11 mesi), dopo di che la guida termica fallisce.
Dalle informazioni allora raccolte, la provenienza, verosimilmente dai Paesi dell'ex blocco comunista, era anteriore. Restava però intatta la potenza esplosiva e allora caccia aperta. La Squadra mobile di Palermo effettuò sopralluoghi, censimenti piano per piano e perquisì, in particolare, un appartamento sfitto le cui finestre puntavano su quelle del capo della Procura. I vetri erano già a prova di proiettili «ma contro un missile ben poco avrebbero potuto – continua Sabella riannodando i fili dei ricordi – e allora pensammo di creare una paratia che esplodesse al contatto». L'esito negativo della ricerca lasciò il progetto nel cassetto.
Quella palazzina (i condomini sono due) di fronte al Palazzo di Giustizia torna alla ribalta dopo che, circa due mesi fa, il procuratore generale Roberto Scarpinato ha redatto un inventario dei punti deboli per la sicurezza. «Uno di questi – dichiara Scarpinato – è proprio il terrazzo che si trova in un palazzo di fronte al Palazzo di giustizia e che costituisce una piattaforma di sparo per i cecchini che vogliono far fuori i magistrati». Una questione delicatissima, visto che i lavori attualmente in corso sulla rampa di accesso al Tribunale, obbligano a 20/30 metri a piedi o all'uso alternativo dei garage. Scarpinato aveva chiesto che venissero collocate telecamere per inquadrare il terrazzo ma ha appreso dal Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza che un condominio ha nominato un legale per la soluzione del caso. L'altro condominio ha invece aderito alla richiesta. Altra corsa, altro giro: Scarpinato analizza con il prefetto la possibilità di emettere un provvedimento d'urgenza ma sembra che tra le mille leggi esistenti in Italia, piazzare una telecamera sia un affare di Stato. «Non faccio valutazioni di merito – dichiara Scarpinato – ma esprimo meraviglia ed amarezza per essere costretto a misurarmi anche con resistenze di questo genere che non avrei mai immaginato»
Nulla di nuovo sotto il sole di Palermo. Il pm Maurizio Agnello, pochi giorni fa ha scritto al suo capo Francesco Lo Voi, denunciando che la zona rimozione sotto casa sua viene sistematicamente violata dagli avventori di un bar vicino che, noncuranti del divieto, parcheggiano prima di godersi una birra. Lo stesso Agnello, il 3 maggio 2014, trovò la lettera di un condomino infilata nella sua cassetta postale, che si lamentava (a nome dei condomini tutti) delle misure di prevenzione prese a tutela della sua vita. Agnello venne invitato a «comprare una casa altrove, magari nello stesso palazzo di qualche suo collega così da evitare un doppio disagio per tanta gente per bene…. Perché noi condomini dobbiamo avere limitazioni di posteggio proprio di fronte al portone e subire ogni giorno l'assalto dei vigili?». Già, perché difendere la vita di magistrato?
Giovanni Falcone, il 14 aprile 1985, lesse sul “Giornale di Sicilia” le lamentele di una residente in via Notarbartolo (dove abitava), che non sopportava le sirene che fungevano da colonna sonora all'imminente morte di quel Servitore dello Stato: «Mi rivolgo al giornale, per chiedere perché non si costruiscono per questi “egregi signori” delle villette alla periferia della città…Sono una onesta cittadina che paga regolarmente le tasse… Vengo letteralmente assillata da continue e assordanti sirene». Il problema di Palermo non è solo il “ciaffico”, come ripetevano a Roberto Benigni che interpretava il fasullo boss cinematografico Johnny Stecchino ma, evidentemente, anche l'edilizia residenziale.
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