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Dossier «All’Europa mancano anima e cuore»

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    Dossier | N. 5 articoliAssemblea Confindustria

    «All’Europa mancano anima e cuore»

    «A questa Europa manca l’anima e il cuore». Con il «rammarico» di un «europeista convinto» il leader di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha parlato ieri all’assemblea annuale degli imprenditori - tenuta quest’anno a Milano nella sede dell’Expo - di una Europa che non è quella che vorrebbe, «che fa fatica a tenere il passo dell’innovazione su scala globale», perché è «pesante, lenta, divisa».

    Soprattutto dopo un anno dalle elezioni del Parlamento di Straburgo, dalle quali era venuta una «domanda forte di politiche in favore della crescita e dell’occupazione» troppo poco è cambiato e gli «investimenti che si attendevano languono».

    Sì, è vero, è stato varato un piano, che pur avendo aspetti interessanti, «ha una dimensione ridotta, molti dubbi da chiarire sul suo funzionamento e nessuna garanzia che attivi spesa aggiuntiva». Insomma agli annunci devono seguire i fatti che dimostrino in concreto la reale volontà di voltare pagina a Bruxelles in favore della crescita economica. Gli egoismi nazionali vanno messi da parte e i populismi affrontati con una agenda concreta di sviluppo.

    Sarebbe un «segnale importante di fiducia se la Commissione fornisse maggiori elementi di chiarezza sui 300 miliardi di investimenti del Piano Juncker, che potrebbero dare respiro e occupazione alle economie dei singoli Paesi».

    Perché «solo seri investimenti infrastrutturali possono garantire questo risultato. Questo vale soprattutto per il nostro Paese che ne ha bisogno per le reti materali, come quelle immateraili, per l’education, per la ricerca e l’innovazione».

    È il momento giusto per una svolta perché siamo in presenza di condizioni esterne al ciclo economico «assai favorevoli, a cominciare dal prezzo del petrolio, tassi ridotti dal quantitative easing in Europa e una robusta svalutazione dell’euro», che hanno prodotto un po’ di crescita. Ma attenzione, queste sono condizioni «una tantum», bisogna lavorare per «agganciare stabilimente la crescita», ha ammonito Squinzi agli imprenditori.

    Il presidente di Confindustria ha avvertito che «oggi la sola istituzione che agisce davvero per l’integrità e il rilancio dell’economia è la Bce guidata da Mario Draghi» ma «è superfluo precisare che questa non può sostituirsi all’Unione degli Stati».

    Dunque, in questo quadro europeo ancora confuso, con una Bce troppo isolata, con segnali indipendentisti ed centrifughi preoccupanti «non c’è alternativa, serve un colpo d’ala. La politica deve riacquistare ruolo e dignità che le diedero i padri fondatori», ha ricordato il numero uno di Confindustria.

    Ci siamo uniti per costruire un modello nuovo di società e di economia, per affrontare «insieme i grandi cambiamenti delle società moderne, per competere con le grandi dimensioni dell’economia globale». Un modello che ha ispirato molti altri paesi ed aree nel mondo, un’unione pacifica e condivisa di crescita comune.

    Siamo ancora la più straordinaria aggregazione «manifatturiera del pianeta, abbiamo un welfare e una sanità che il mondo ci invidia, eppure non riusciamo a mantenere l’obiettivo della crescita». Ma oggi siamo diventati «il continente della bassa crescita, ci siamo dimenticati dei valori reali. Ci siamo aggrappati con poca lungimiranza a un rigorismo eccessivo». Mentre gli Stati Uniti e l’Asia crescono, l’Europa ristagna, imbrigliata da un’austerità sopra le righe.

    Secondo il presidente di Confindustria, infatti, «senza un progetto politico e una visione comune, l’Europa stenterà a essere un interprete autorevole della scena geopolitica mondiale e non riuscirà a rispondere ai bisogni complessi dei cittadini e delle imprese del continente. Lascerà dietro di sé - ha continuato - una scia di simboli freddi, burocratici, alimentando solo derive populiste». Parole dure, severe, ma fatte da un europeista convinto. Le onde lunghe prodotte dal «mutamento dei bisogni, quelle ravvicinate dei cicli economici, le instabilità geopolitiche ci diranno nei prossimi anni se l’Europa ha saputo interpretare questo cambiamento in tempo e con soluzioni appropriate». Perché la partita è aperta, i competitors agguerriti, e solo chi penserà «strategicamente» e sarà capace di «grandi progetti» guiderà la futura società. Chi avrà subito o dato «risposte insufficienti si accomoderà ai suoi margini».

    Quindi l’Europa, deve tornare a pensare in grande come fecero a suo tempo Spinelli, De Gasperi, Schuman, Adenauer, Monnet, Spaak e deve essere più reattiva di fronte alle sfide globali. Gli europei saranno tali «se torneranno a pensare in grande e con un grande progetto culturale comune».

    Sulla crisi della Grecia se affrontata al suo emergere iniziale sarebbe già risolta, poi «si è gonfiata di orgoglio e rigidità da un lato, d’inaffidabilità elettoralistica dall’altro, in una miscela che può essere micidiale». Inoltre «l’esito della trattativa in corso è incerto, ma una certezza però l’abbiamo: il default greco, anche senza l’uscita alla moneta unica, sicuramente non aiuterebbe il rilancio dell’economia europea e la timida ripartenza italiana».

    Il presidente Squinzi, ha poi illustrato alla platea le conseguenze di un possibile sviluppo negativo della crisi ellenica. Crisi, ha spiegato durante il suo discorso all’assemblea, che è stata affrontata senza lungimiranza. «Il negoziato con la Grecia è il paradigma perfetto dei nostri limiti» ha aggiunto, sottolineando che in Europa «solo adesso si comincia a comprendere che la sfida è diversa: è tutta politica e civile».

    In questa prospettiva «il campo su cui si farà l’Unione vera, su cui terrà la moneta unica, sono il lavoro e lo sviluppo costruiti su un progetto comune».

    E di fronte alle sirene interessate di chi invita a uscire dalla moneta unica, Squinzi ha ricordato che «le imprese avrebbero ben poco da guadagnare dalla fine dell’euro e la City di Londra di questo ne è perfettamente consapevole».

    Quanto all’Italia «ha la credibilità per essere leader di una nuova stagione comunitaria, perché non ha mai abiurato al suo credo europeo e perché ha fatto sforzi notevoli per mettere a posto i propri conti e realizzare riforme importanti». L’àncora europea, il “pungolo” di Bruxelles, sono stati utili al Paese in passato, ma ora, forse è giunto il momento per l’Italia di diventare essa stessa pungolo a Bruxelles per una nuova stagione europea fatta non solo di conti in ordine e fiscal compact, ma anche di crescita e sviluppo. Perché per questo obiettivo abbiamo deciso, nel Trattato di Roma, di unire i nostri destini in un grande progetto comune sovranazionale.

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