Italia

La relazione del presidente dei Giovani di Confindustria Marco Gay

  • Abbonati
  • Accedi
SANTA MARGHERITA 2015

La relazione del presidente dei Giovani di Confindustria Marco Gay

Sono stati anni difficili, in cui mai ci siamo dati per vinti. Oggi, che siamo al centro del mondo grazie a Expo e viviamo i segnali di una ripresa, seppure flebile, ancora una volta vogliamo dare il nostro contributo. Semplicemente fare la nostra parte. La semplicità è la forma della vera grandezza. Può sopravvivere un'impresa dove le carte girano da un piano all'altro senza che nessuno si assuma mai il rischio di decidere? Può avere successo un prodotto che nessuno sa usare? Può esistere un'idea convincente che nessuno riesce a capire? No. Ecco perché la semplicità è la vera forza. E noi sogniamo un Paese forte, che torni grande facendo cose semplici. Quella che vogliamo è la rivoluzione della semplicità.

È poter dare finalmente per certo che le aliquote non cambieranno ogni mese, che i fondi europei siano utilizzati anziché restituiti ogni volta a Bruxelles, che prima di adottare una nuova misura di politica industriale si valuti quali risultati ha portato quella precedente.
Scelte che nelle altre economie avanzate sono scontate, mentre da noi hanno il prezzo altissimo dell'una tantum, dell'eccezione che non diventa mai regola.

Siamo cittadini e quindi politici
L'unico modo per trasformare l'eccezione in regola è assumerci, anche noi, la responsabilità delle nostre azioni. Una responsabilità che va oltre quella dell'impresa, una responsabilità che deve essere sociale e, quindi, politica. Perché ciò che facciamo, ciò di cui parliamo, perfino ciò che taciamo, ha una valenza politica. Per tanto tempo abbiamo chiesto con insistenza di “abbassare le tasse, farci lavorare, lasciarci in pace nelle nostre aziende”. E anche se oggi fare impresa in Italia non è diventato più semplice – e per questo sulle tasse, sulla burocrazia, sulle infrastrutture, continueremo a ripetere le cose che abbiamo detto fino allo sfinimento - quello che non diremo più, perché quel tempo è finito, è “lasciateci in pace”. Non vogliamo essere lasciati in pace, vogliamo costruirla insieme la pace. Quella sociale e quella civile, quella economica e quella culturale.

Il tempo del “piove, governo ladro” è finito.
Anche quando ci riusciamo, non ci basta più chiudere i nostri bilanci in positivo. Non ci accontentiamo di assumere una persona in più rispetto allo scorso anno o di non licenziarne nemmeno una quando calano gli ordinativi. E' chiaro che sono risultati ottimi per chi fa impresa, ma non ci basta svolgere al meglio solo il nostro lavoro di imprenditori. Perché significa lottare giorno per giorno, senza poter pianificare come vorremmo. Perché significa accettare che un ragazzo su quattro si è rassegnato a non costruire il proprio futuro: non studia, non lavora e un lavoro nemmeno lo cerca. Perché significa dare per probabile quello che non deve essere nemmeno possibile, il declino dell'Italia. Perché significa rinunciare al sogno europeo, ostaggio di Brexit, Grexit, quote sull'immigrazione ed egoismi nazionali.

Per questo, se anche ci possiamo sentire soddisfatti dai risultati aziendali, se anche ci possiamo sentire assolti, restiamo sempre, tutti, coinvolti in qualcosa di più grande. Che si chiama Italia. Perché la politica è di tutti e ha bisogno del contributo di tutti. Per costruire il domani. “La politica scompare se si chiude solo nel tempo presente. Se perde la capacità di guardare al futuro “ come ha detto il Presidente della Repubblica. Non basta un voto, non serve un veto: servono idee, lavoro in comune e creazione di consenso, serve proiezione internazionale ed esperienza imprenditoriale.

Ma serve anche dialettica e confronto. A noi il confronto non fa paura! Sia chiaro, non ci interessa “scendere in campo” perché il nostro “campo” non è l'agone politico ma l'agorà, e in quell'agorà - da imprenditori - vogliamo partecipare, fare la nostra parte. Forse 13mila imprenditori giovani non mobilitano tante persone in piazza come riescono a fare insegnanti o tassisti, ma hanno, dalla loro, la forza del lavoro, della passione e del capitale. La capacità di porsi degli obiettivi e di definire i mezzi per raggiungerli in un arco pluriennale. E questa è la nostra forza: esserci con le nostre aziende e il nostro impegno. Non possiamo dover pensare di essere costretti a sfilare in corteo o fare uno sciopero fiscale per essere ascoltati! E allora non ci accontentiamo di possedere delle azioni postergate dell'Italia: investire in questo Paese significa anche averne responsabilità, significa essere il “consigliere indipendente” del CdA, significa contribuire a scriverne il business plan. Il piano industriale, il piano sociale. Siamo stanchi di preoccuparci, ora vogliamo occuparcene. Noi ci siamo.

Sporchiamoci le mani Sporchiamoci le mani.
Allora. Perché come scriveva Don Milani “a che serve avere le mani pulite, se si tengono in tasca?” Lo scriveva ben prima che arrivasse la stagione di Mani Pulite.
E aveva ragione: la via giudiziaria alla legalità non è riuscita a restituirci un Paese che funziona come vorremmo. Non ha cancellato le varianti che fanno salire a dismisura i costi degli appalti, né i miliardi programmati e non spesi. Non ha razionalizzato la spesa sanitaria o posto fine alle nomine politiche nelle Asl, né abbattuto il costo e il numero delle partecipate locali.

La via giudiziaria alle mani pulite ha distrutto qualche partito, ne ha creato qualche altro. Ha fatto fallire qualche azienda e cambiato qualche consiglio di amministrazione.
Ma non siamo stati capaci, una volta conclusa, di dare vita a un nuovo corpo sociale e a un nuovo modo di intendere il rapporto fra impresa, istituzioni e politica. Perché è stata una guerra fra padri e non una rivolta dei figli, una resa di conti interna al vecchio sistema di potere che non ha creato un nuovo modo di intendere il potere. Perché è stata una rivoluzione giudiziaria e non sociale. E dopo i processi spettacolari, nessuno ha ricostruito gli anticorpi, non solo legali ma soprattutto civili e soprattutto economici, per impedire che ciò avvenisse nuovamente. Così, dopo 20 anni, corruzione, scandali, appropriazione indebita di risorse, tornano sulle cronache.

Questo mondo parallelo, a chi fa impresa rispettando le regole, non appartiene. Il nostro modo di fare business è differente. Non ci stiamo a cambiare tutto, a complicare tutto, perché alla fine non cambi niente. Non ci stiamo alla logica di chi si accontenta di non ricevere avvisi di garanzia e assiste dalla finestra a un mondo che crolla. Dobbiamo avere il coraggio di dire che il populismo è la più subdola delle tentazioni e non possiamo farcene scudo. Oggi quelle mani dobbiamo sporcarcele con il lavoro per cambiare il sistema. Sporcarcele di sporco buono: quello delle fabbriche e quello della cosa pubblica, dell'impegno, della passione e della giustizia. È ora di farlo, perché qualcosa si sta muovendo. Il sentimento dell'anticasta, forse, ha fatto il suo tempo. La politica sta provando a riformarsi: non soltanto abolendo i vitalizi ai condannati o vendendo qualche auto blu, ma soprattutto dimostrando che può essere ancora utile. Che può fare cose utili. C'è una nuova classe dirigente, oggi: siede al Governo e all'opposizione, lavora nelle aule, negli ospedali e negli enti pubblici. Questa nuova classe ha bisogno di noi. Della voglia di riscatto che tanti giovani, come quelli che sono seduti qui oggi, sentono come possibile e come dovuta. Perché quella classe dirigente siamo anche noi.

Diamoci una “regolata”
Al cuore di tutto c'è il rapporto tra decisori pubblici e interessi privati.
Un rapporto che ha tre gravi lacune: il finanziamento della politica, l'assenza di uno statuto giuridico dei partiti e la mancata regolamentazione delle lobby. Un mix esplosivo che rischia di essere, se non il detonatore dell'ennesimo scandalo, una mancata occasione di sviluppo. Inutile girarci intorno: il finanziamento ai partiti è stato uno dei nodi che ha segnato le grandi trasformazioni della nostra Italia. La prima Repubblica si concludeva con un referendum che aboliva il finanziamento pubblico. La seconda è stata l'era dei rimborsi elettorali. La terza è nata sull'idea che se i partiti non servono a nulla, anche dargli un euro è uno spreco. E così il finanziamento pubblico nel 2013 spariva per sempre, tutto affidato alle donazioni dei privati. Ma noi, che siamo quei privati, non abbiamo paura a dire che il sistema venuto fuori è un colabrodo pericoloso, perché non prevede nessun vero obbligo di trasparenza.

Mentre all'estero è necessario documentare qualsiasi contributo elettorale - sopra i 50 dollari in Usa, le 50 sterline in Gran Bretagna o i 50 euro in Francia - in Italia questo limite ha due zeri in più - 5 mila euro - e, soprattutto, il donatore può essere reso pubblico solo con il suo consenso. Nella migliore tradizione italiana, un “obbligo facoltativo”. Accanto a questa opacità, manca - da “soli” 70 anni - una normativa che regoli il funzionamento dei partiti in attuazione alla Costituzione. Oggi l'Italicum chiude 10 anni di rinvii e ci dà finalmente una legge elettorale che favorisce la stabilità. Adesso completiamo l'opera non solo con le riforme costituzionali ma anche con una legge sui partiti: poche regole chiare sull'ordinamento democratico, controlli della Corte dei Conti e, soprattutto, bilanci trasparenti. Ci avete fatto riformare le aziende, creato le srl innovative, fatto fondere le banche, se avrete anche il coraggio di guardare in casa vostra e sarete capaci di “darvi una regolata”, noi saremmo pronti a dire che i partiti meritano anche di reggersi – per una parte – sulle gambe del finanziamento pubblico, come avviene in tutta Europa. Ma le regole non servono solo per chi fa politica: servono anche per chi, da privato, si confronta con la politica.

In Italia manca una legge sulle lobby, a causa di una interpretazione distorta di cosa significa fare “rappresentanza di interessi”: alle lobby da un lato si addossa ogni colpa e dall'altro neanche si prova a farci i conti. Un finto moralismo, ingenuo più che idealista, che nega una evidente semplicità: in un sistema democratico il compito del decisore pubblico è quello di sintetizzare gli interessi particolari, in modo da soddisfare il più possibile l'interesse generale. E le lobby, quelle sane, servono a questo. Eppure, spesso, sono state usate come paravento dietro cui si sono nascosti i politici che non si sono presi la responsabilità di compiere pubblicamente delle scelte. Un po' come il “ce lo chiede l'Europa”. Per questo crediamo che una nuova classe politica che vuole cambiare il Paese debba anche rimuovere questo paravento: facciamo una legge chiara e trasparente sull'attività di lobby che divida gli affaristi da chi rappresenta gli interessi legittimi.

Fare politiche non solo politica
Chi, come noi, fa rappresentanza generale è un valore aggiunto. Siamo una lobby? Sì, quella che promuove l'interesse dei giovani e degli imprenditori. E se lo facciamo bene, c'è un Paese che cresce. Perché, anche grazie a noi, possiamo fare politiche e non soltanto politica. La politica di oggi invece - quella dei talkshow, quella in continua campagna elettorale, quella dell'annuncio di ciò che fa quando governa o di ciò che farebbe quando è all'opposizione - cancella le politiche. Oggi, con una società civile in continuo cambiamento, come possiamo costruire progetti di lungo termine? Su che basi? Forse due sono le risposte: una sono i numeri, l'altra siamo noi. I dati innanzitutto: in Italia i numeri sono onnipresenti – 5mila sbarchi a Lampedusa, 159mila posti di lavoro, 0,3 per cento di crescita in più nel trimestre – ma non contano nulla se non riescono a connettere causa con effetto.

Ancora manca un metodo per farlo. Un metodo che determini il lavoro delle istituzioni di ogni giorno e che resti saldo col cambiare dei Governi. Un metodo per poter scegliere, affidabile e quantificabile: perché l'unica opzione che prevale, sennò, è quella della non decisione. Abbiamo bisogno di decisioni e vogliamo che gli effetti di queste vengano valutati in tempi certi, modi chiari e da strutture indipendenti, come succede in America dal 1981 con l'O.I.R.A. (Office of Information and Regulatory Affairs) e in Europa con lo IAB (Impact Assessment Board). La conseguenza, altrimenti, sono tasse che cambiano nome e destinatario ad ogni finanziaria, leggi che ogni tre mesi abrogano la precedente, pensioni e contratti basati su regole che vivono il tempo di una notte.

Facciamoci delle domande. Gli 80 euro hanno funzionato? Dobbiamo rifinanziarli, allargare la platea dei beneficiari o cancellarli e investire in altre misure? Il reddito di cittadinanza è un incentivo a non lavorare o uno strumento per combattere la isuguaglianza? Il contratto a tutele crescenti ha qualche effetto sulle assunzioni recenti o vale solo la detassazione? Senza queste risposte può essere tutto e il contrario di tutto, ma sicuramente ogni scelta diventa il frutto di improvvisazione. Senza queste risposte siamo costretti ad attuare in emergenza sentenze della Corte Costituzionale, che non ha e non deve avere il compito di determinare l'allocazione delle risorse pubbliche oltre a quello già gravoso di far rispettare la Costituzione. Senza queste risposte finiamo per pensare che i dati sulla crescita, il più 2% entro il 2016, rischiano di essere frutto di variabili esogene – il calo del prezzo del petrolio, il quantitative easing di Draghi, gli investimenti di Junker – e non, come dovrebbe essere, del nostro lavoro, del nostro sacrificio e delle nostre riforme.
Senza queste risposte, rischiamo addirittura di prendere come termometro dell'azione del Governo i risultati delle elezioni regionali, nemmeno fosse la schedina del campionato, se finisce 3 a 4 invece che 5 a 2!

Noi i Governi vogliamo valutarli per quello che fanno e per gli effetti che hanno sull'occupazione, sul fisco, sulla burocrazia. E vogliamo anche che chi li guida lavori su questi aspetti e soltanto su questi. Perché il primo risultato che spaventa di queste elezioni è l'astensionismo: tutti quei cittadini che non sono andati alle urne e anche quelli che lo hanno fatto “turandosi il naso”. Alle elezioni del ‘48 andarono a votare 92 italiani su 100, domenica uno su due non ha votato: è questa la vera sconfitta per un sistema democratico.
Tutti i partiti lunedì scorso proclamavano di avere vinto, in realtà avevano perso tutti.
Il metodo allora deve essere anche capace di coinvolgere, definendo canali di confronto con le parti sociali, e dimostrando che sul lavoro, sui diritti, sulle aspirazioni e sulla felicità degli italiani, c'è una classe politica che si impegna ogni giorno e porta risultati. Senza sistemi di confronto nemmeno le imprese possono partecipare a elaborare le politiche pubbliche e metterle in pratica. Anche quando ne siano le destinatarie. Perché va benissimo la revisione della bolletta energetica, ancora meglio l'infrastrutturazione della banda ultralarga, così come il credito di imposta su ricerca e sviluppo, ma la policy industriale qual è? Quali sono i fattori da cui partire e su cui investire per un piano di sviluppo serio e lungimirante? Se continuiamo a lamentare la mancanza di una politica industriale, è perché è proprio di questa che le imprese hanno più bisogno, ed è proprio su questa che l'esperienza delle imprese può fare la differenza. Una esperienza vissuta sulla nostra pelle, durante la crisi, che ci ha lasciato però con tre lezioni chiare: internazionalizzazione, innovazione, qualità.

E vi stupireste di sapere come questa consapevolezza sia già pratica quotidiana, anche in chi fa impresa per la prima volta. Per crescere all'estero abbiamo ripreso la valigia e giriamo il mondo, ci siamo aperti all'e-commerce e agli export manager temporanei.
Per innovare abbiamo stretto accordi con gli incubatori universitari, adottato startup, creato spinoff. Per competere sulla qualità e non sui costi – che sia chiaro, è una logica perdente in una economia globale - stiamo cambiando mercati, formando i dipendenti, alzando il livello dei prodotti, curando il design, facendo reshoring per valorizzare il vero Made in Italy. Ora ci chiediamo: quali sono le tre lezioni che ha imparato la classe politica dalla crisi? Come e quando pensa di attuarle? Non possiamo pensare di affrontare in maniera efficiente i prossimi anni se prima non abbiamo capito gli errori che ci hanno portato in questa crisi a distruggere il sistema produttivo e se non abbiamo definito la strategia per crescere, diventare più forti e competitivi.

E, credeteci, non potete davvero pensare di scrivere questa strategia senza le imprese.
Presidente Renzi il confronto aperto e moderno con noi è necessario per creare politiche per il paese. Noi siamo a disposizione, coinvolgeteci, sfruttateci, per le idee e non solo per le tasse. Perché delle imprese non possiamo ricordarci solo quando c'è da scongiurare la chiusura di uno stabilimento, ma ogni giorno in cui è necessario trovare strumenti per farne nascere di nuovi. Fare, in una espressione, politica industriale!

Il nostro impegno non si esaurisce domani, smontato il palco e fatta la rassegna stampa, ma dura tutto l'anno. Non abbiamo infatti solo capitali da investire per la crescita, ma capitale civico da investire per il cambiamento. Il nostro Paese è ancora debole, riesce a cogliere la ripresa meno di altri, perché non ha voluto, saputo, potuto prendere decisioni.
Vogliamo provarci anche noi? Vogliamo partire dai nostri più grandi limiti e trasformarli in fattori di successo? Facciamo uno per parte. Noi ci assumiamo quello dello scale up: la crescita dimensionale delle imprese, il vero gap che ci separa dalla Germania. La creazione di multinazionali tascabili, di aziende più strutturate, price maker, capaci di creare un mercato e non di dipenderne solamente. Per riuscirci, però, dobbiamo avere un ecosistema che ce lo permetta con semplicità e ci rispetti per quello che facciamo. Se in Inghilterra la deduzione per chi investe in nuove imprese è pari all'85 per cento del capitale, in Italia possiamo pensare di avere gli stessi risultati con solo il 19-20 per cento? Voi provateci con l'abbattimento dei contenziosi amministrativi. I circa 70mila ricorsi ogni anno, con un tempo di attesa per un primo giudizio di 500 giorni - peggio di noi fanno soltanto Cipro e Malta - ci raccontano un pezzo di Italia che non funziona: il terzo valico in Liguria, il porto di Taranto, l'autostrada Roma-Latina, la stazione di Catania e potrei andare avanti per ore.
Una vera enciclopedia di opere pubbliche finanziate, appaltate e bloccate. Alimentate anche da un'altra anomalia tutta italiana: le 32mila stazioni appaltanti.

Il costo del non fare, di questa paralisi delle opere pubbliche, del continuo appuntamento con le aule della giustizia amministrativa, è un freno pari al 4,9 per cento sul PIL, che se tolto ci consentirebbe di crescere al ritmo della Cina! Il Tar non funziona? Se ne abusa? Facciamo in modo che la giustizia amministrativa sia davvero efficiente, una tutela per il privato e non un limite, e togliamo tre cifre al numero delle stazioni appaltanti: a noi ne basterebbe una, ma ci accontentiamo di 32. Ma procediamo anche veloci sulla riforma della Pubblica Amministrazione: quello che ci aspettiamo è di avere amministratori pubblici che siano liberati dalla paura di decidere e dalla tentazione di usare il veto come potere. Una PA per i cittadini e per le imprese, non più contro: vogliamo una cultura del rischio anche per la PA. E se c'è un prezzo da pagare in termini di consensi, di prebende, di risultati elettorali, facciamocene una ragione. Anzi, fatevene una ragione. Come diceva Giovanni Falcone infatti “che le cose siano così, non vuol dire che debbano andare così. Solo che, quando c'è da rimboccarsi le maniche e incominciare a cambiare, vi è un prezzo da pagare, ed è allora che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare”.

Ci interessa
Noi vogliamo fare, forse è quello che ci riesce meglio ma non ci esime dal partecipare.
Ecco perché abbiamo deciso di invitare qui la politica a discutere su temi precisi con obiettivi precisi. Perché siamo consapevoli che è solo con il confronto, con il coinvolgimento reciproco sulle questioni più urgenti e su quelle più strategiche, che possiamo cambiare il Paese. Dopo anni in cui i politici sono stati percepiti come lontani dalla società, oggi che forse stanno dimostrando di non saper solo promettere, oggi che la crisi sembra stia finendo e che c'è ancora più da fare: a chi interessa prendersi cura delle sorti dell'Italia? A noi sì, perché l'Italia è dove sono e, soprattutto, dove vogliamo che restino le nostre imprese. Perché per le nostre imprese l'Italia sarà anche il Paese più complicato del mondo, ma per noi è semplicemente quello più incredibile. Perché vogliamo credere che i giovani in questa terra verranno a lavorare e non solo a fare vacanze. Perché anche noi siamo giovani e per questo, forse, visionari. E anche se abbiamo una lunga storia da raccontare, fatta di sacrifici e successi dell'impresa italiana, sogniamo di averne una altra lunga davanti da costruire. La storia di chi non si arrende, di chi ci mette la faccia, si sporca le mani, e prova a scriverla assieme alla politica. Perché politica e impresa hanno a che fare l'una con l'altra ogni giorno. Alcune volte si scontrano, altre volte si capiscono e generano crescita per il territorio, altre ancora fingono di evitarsi. Ma non possono fare l'una a meno dell'altra.

Non può farne a meno l'Italia. E allora vogliamo aprire le porte delle fabbriche, spalancarle al domani e farlo da oggi. Il nostro capannone aperto vuole dire esattamente questo: porte aperte alla società e a chi ha il compito di guidarla. Non lo facciamo per interesse, lo facciamo perché

© Riproduzione riservata