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Ue e autolesionismo italiano

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analisi

Ue e autolesionismo italiano

Aveva raccolto un innegabile successo politico- diplomatico l’Italia al vertice Ue di aprile quando, dopo decenni di sterili tentativi, era finalmente riuscita a scuotere la gelida indifferenza dei partner alle tragedie del Mar Mediterraneo, alla moltitudine di disperati, e annegati, all’assalto della speranza sulle coste di Lampedusa e dintorni.

Era riuscita a rompere, su politiche di asilo e convenzione di Dublino, un sacro tabù europeo: come quello dell'indipendenza della Bce o della sovranità nazionale esclusiva sulla politica fiscale.

Certo, la politica comune dell'immigrazione resta tutta di là da venire e da inventare. Però il ghiaccio europeo si cominciava a sciogliere nella nuova consapevolezza di un problema serio per tutti, da affrontare in modo condiviso e con un maggiore impiego di risorse finanziarie, di missioni navali di controllo rafforzate, di iniziative militari per reprimere traffici e negrieri. Fino all'introduzione di quote obbligatorie, secondo la proposta Juncker, per ripartire sul territorio Ue in situazioni di palese emergenza-paese, i richiedenti asilo naturalmente a certe condizioni e secondo precisi criteri.

Passata la festa, gabbato lo santo: trascorse alcune settimane, con un esercizio di incredibile autolesionismo, l'Italia sta cercando di farsi male da sola sparando nei piedi del proprio successo, riproponendosi come interlocutore confuso e contraddittorio. In breve, poco credibile.

La partita resta strutturalmente difficile da giocare in dimensione collettiva a 25 (senza inglesi, irlandesi e danesi) per le radicate diffidenze tra Stati-membri su materie sensibilissime come la sicurezza dei cittadini, l'equilibrio di società finora dimostratesi incapaci di farsi multirazziali, di democrazie anche per questo esposte ai venti di populismi, nazionalismi ed estremismi e, dunque, all'instabilità politica.

Il nostro sistema-paese riesce però a fare tutto quello che serve per allarmare chi dovrebbe dargli finalmente una mano. Incapace di mostrare quel senso di responsabilità, che pure l'Europa giustamente pretende per garantirci solidarietà.

Quasi 55mila immigrati accolti dall'inizio dell'anno, con altre migliaia che si preparano a sbarcare in estate, non sono di facile gestione. Però è impossibile giustificare disordine e anarchia continuata nell'accoglienza, strutture eternamente inadeguate, registrazioni degli arrivi e identificazioni obbligatorie spesse mancate, scandali e ruberie su fondi destinati ad assistere i disperati, liti e violenti conflitti tra Governo e regioni, regioni e regioni, regioni ed enti locali in una scatenata ordalia nazionale che semina sfiducia e sospetti diffusi.

I partner per ora reagiscono chiudendo ermeticamente le frontiere, rispedendo gli immigrati in Italia. E cominciano a pensare di rimandare da giugno a settembre l'accordo sulla condivisione in due anni di 40mila rifugiati, 24mila in Italia.

Naturalmente nella logica del rinvio c'è la solita Europa dei due passi avanti e uno indietro che spesso finisce in surplace. C'è l'obiettiva complessità di un'operazione con 25 interessi nazionali contrastanti e da decidere a maggioranza qualificata, con i Paesi dell'Est, baltici, Spagna e Portogallo arroccati sul rifiuto di quote obbligatorie, la Francia dubbiosa sul concetto, anche nel timore di tirare la volata al Front National di Marine Le Pen. La Germania disponibile ma decisa a restare in sintonia con Parigi per governare insieme un processo europeo di cui vuole mantenere l'iniziativa. Senza lasciare troppo spazio alla Commissione Juncker.

Ma c'è anche l'Italia che ogni tanto riesce a mettere a segno in Europa expoit vincenti e lungimiranti ma poi non si dimostra all'altezza delle proprie ambizioni e urgenze, perché priva di metodo nel perseguire gli obiettivi e senza un sistema-paese in grado di sostenerli. Per questo, prima che degli egoismi europei, spesso finisce vittima di se stessa. E delle decisioni altrui. Non necessariamente gradite.

Quando in gennaio a Parigi ci fu l'attentato alla sede di Charlie Hebdo, il sussulto emotivo fu enorme, 2 milioni di europei stretti intorno a Francois Hollande in marcia sugli Champs Elysées e la promessa di una vera politica comune contro il terrorismo. Se ne sono perse le tracce.

In aprile, quasi mille annegati nel Mediterraneo: stessi brividi emotivi, stessi ottimi propositi. Ma ora il principio di un'altra politica comune europea rischia di evaporare con la stessa velocità con cui è spuntata. Dovrà sfoderare impegno, coerenza e attenzione, l'Italia, per non ritrovarsi, alla fine, con un pugno di mosche in mano.

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