Ho visitato, più di una volta, Rosarno, vertice settentrionale della Piana di Gioia Tauro. A dire il vero ho girato in lungo e in largo, per le inchieste che ho svolto negli anni per il mio giornale, la Piana di Gioia Tauro e mi sono sempre chiesto perché fosse così desolatamente lontana dal cuore della politica e della democrazia italiana.
La prima, la politica, a partire da quella calabrese, se così si può definire, è infatti la prima ad esaltarne le potenzialità di sviluppo economico e di crescita sociale, come nel caso della landa portuale di Gioia Tauro e la prima, al tempo stesso, a fare in modo che quelle “potenzialità” non si trasformino mai in “potenza” per riscattare un popolo allo stremo.
I secondi, gli italiani, sanno a malapena che esiste un porto, delle zone un tempo immuni dalla cementificazione selvaggia e che una volta gli agrumeti abbracciavano l'area fin quasi a baciarsi con quelli della Piana di Sibari. Gli stessi italiani che cadono, disinteressandosi del diritto/dovere di informarsi, nello stereotipo che lì tutto è ‘ndrangheta.
Negare che a Rosarno e nei paesi della Piana di Gioia Tauro le cosche cerchino di controllare anche l'aria che si respira, oltre che girare le lancette dell'economia fuori dalle regole di libero mercato, sarebbe come negare l'esistenza del sole. Il consenso sociale si sposa troppo spesso con la pervicacia mafiosa in assenza, è bene dirlo, della Politica e dello Stato che hanno troppo spesso abdicato al ruolo di garanti dell'osservanza dei diritti e dei doveri.
Io stesso mi sono attirato l'ira di molti amministratori (alcuni dei quali finiti poi indagati e condannati per fatti di mafia) e di un'ampia fetta della collettività a causa delle mie inchieste dure e senza sconti per nessuno. Colgo sempre l'occasione per scusarmi degli eccessi e sono sempre stato pronto a cogliere ed amplificare i segnali di rinascita e riscatto dei tantissimi cittadini di quest'area che vogliono sottrarsi al giogo mortale delle cosche che, a partire da Pesce, Bellocco, Mammoliti, Molè e via di questo dannato passo, asfissiano la Calabria e su per li rami l'Italia intera, in un mosaico sistematico e criminale che non si risparmia alleanze e fratellanze con i settori deviati dello Stato, delle libere professioni e della politica.
Questo libro è una tessera, importante, dedicata a uno degli uomini che maggiormente hanno incarnato lo spirito di riscatto e la voglia di libertà di quella fetta di Calabria che, sia chiaro a tutti noi, non è diversa dalle altre fette di una regione che, a dispetto delle vittorie repressive dello Stato, viene divorata giorno dopo giorno dai sistemi criminali.
La notte tra il 10 e l'11 giugno 1980, Giuseppe Valarioti, segretario della sezione del Partito comunista di Rosarno, è con i suoi compagni in un ristorante di Nicotera, nel Vibonese, per festeggiare la vittoria alle elezioni amministrative. Finita la cena esce dal locale dove l'attendono due colpi di lupara. Muore tra le braccia del suo mentore e padre politico, Peppino Lavorato.
Aveva 30 anni Valarioti ed era un professore che dava lezioni. Non solo di italiano, che insegnava a scuola, ma anche di legalità, visto che nei comizi elettorali, senza paura, gridava che i rosarnesi non dovevano piegarsi allo strapotere della ‘ndrangheta e visto che lo stesso appello alla ribellione lo lanciava anche contro i comitati di affari sporchi, che in Calabria dominavano e continuano a dettare legge.
La sua vita nel nome della legalità e dei diritti, con questo libro, diventa memoria e, dunque, conoscenza da assimilare e trasmettere.
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