«Ricordo che il procuratore generale di Milano nel 1992, in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario affermò che a Milano non esistessero organizzazioni mafiose perché non si era ancora concluso alcun processo in Cassazione con una condanna per 416 bis, ma nei due anni successivi vennero arrestati circa 2.000 appartenenti a organizzazioni mafiose. Se qualcuno allora avesse ragionato e lavorato con questo criterio, sarebbe arrivato a una conclusione diversa»: è il 6 maggio 2014 quando il professor Carlo Alberto Dalla Chiesa presenta così il report dell'Osservatorio sulla criminalità organizzata dell'Università degli Studi di Milano.
Dalla Chiesa, forse per non infierire, tralasciò di dire che a gennaio 2010, tra doverose smentite postume e puntualizzazioni tardive, un prefetto continuava a negare l'esistenza delle mafie a Milano. Anche in quel caso, a distanza di pochissimi mesi, in una calda estate di luglio, l'indagine Crimine/Infinito sull'asse Milano-Reggio Calabria, svelò, per l'ennesima volta ma con maggiore clamore mediatico, l'esistenza della ‘ndrangheta nella capitale (un tempo) morale del Paese. In realtà, già all'inizio degli anni Novanta, la magistratura milanese aveva svelato gli affari dorati della ‘ndrangheta in Lombardia, che stava ormai soppiantando Cosa nostra.
Parlare o scrivere di mafie e di sistemi criminali, al Nord, è sempre stato complesso perché accettare l'idea che il cancro, parafrasando la risalita della linea della palma di Leonardo Sciascia, avesse metastatizzato le regioni settentrionali era e resta difficile. Per molti impossibile anche di fronte all'evidenza dei fatti.
Nel libro proposto oggi in Collana, Alessia Candito, mentre Milano si presenta al mondo con la vetrina di Expo 2015, descrive una città «travolta dagli scandali e dalla corruzione in cui il potere e la criminalità organizzata siedono intorno allo stesso tavolo». Ora fate attenzione a quanto scrisse nel 2011, nell'indifferenza dei media, il sostituto procuratore nazionale antimafia Carlo Caponcello nella relazione della Dna consegnata alle Camere: «la ndrangheta è una presenza istituzionale strutturale della società calabrese. E' interlocutore indefettibile di ogni potere politico ed amministrativo, partner necessario di ogni impresa nazionale o multinazionale che abbia ottenuto l'aggiudicazione di lavori pubblici sul territorio regionale».
E infine leggete cosa scrivono i servizi segreti italiani nella relazione consegnata il 27 febbraio di quest'anno al Parlamento: «Per raggiungere gli obiettivi – si legge da pagina 59 – le mafie hanno beneficiato, anche al di fuori delle aree di origine, dei convergenti interessi criminal/imprenditoriali di lobby sempre più diffuse costituite da una variegata gamma di attori (professionisti, intermediari, imprenditori collusi, pubblici ufficiali ed amministratori corrotti), la cui azione serve a inquinare le dinamiche del mercato e a condizionare i processi decisionali. Questi lobby, anche in assenza dell'”attore” criminale, hanno talvolta mutuato il metodo relazionale mafioso imponendo il proprio sistema corruttivo, specie nel settore delle grandi opere».
Le analogie tra Reggio Calabria e Milano, tra la Calabria e la Lombardia, ma sarebbe la stessa cosa se il paragone si estendesse alle province di Roma, Torino, Reggio Emilia e altre ancora, sono evidenti e testimoniano quanto la metastasi sia ormai un dato di fatto con il quale la politica e la classe dirigente di questo Paese continuano a fare i conti con colpevole ritardo.
r.galullo@ilsole24ore.com
© Riproduzione riservata