Quando, nell'aprile 2006, i ragazzi che coltivano a Corleone le terre strappate ai boss di Cosa nostra mi portarono nelle vicine campagne di San Giuseppe Jato, sapevo che non sarebbe stato facile.
Non andavamo lì in gita di piacere ma per vedere il casolare, devastato e abbandonato, nel quale, correva l'estate 1995, venne rinchiuso Giuseppe Di Matteo. Volevo andare lì e pregare in quel luogo difficilmente accessibile, dove un bambino di 13 anni venne segregato per centinaia di giorni, in una cella talmente stretta e buia che a pensarci ancora oggi ritengo impossibile che un bambino possa davvero sopravviverci così a lungo. Scattai alcune foto e ricordo che, guardandole con mia moglie al ritorno, piangemmo pensando al destino di quel ragazzo strappato, dopo oltre due anni di inaudite sofferenze e violenze fisiche e psicologiche, alle passioni giovanili e alla vita.
Il tredicenne Di Matteo, la cui colpa era essere figlio di Santino Di Matteo, affiliato e poi pentito della famiglia di Altofonte, è stato l'ennesimo sacrificio sull'altare della miseranda e criminale giustizia di Cosa nostra officiata, anche in quell'occasione, da Giovanni Brusca che del mandamento palermitano di San Giuseppe Jato era il boss per discendenza ereditaria. Il padre, Bernardo, lo aveva introdotto giovanissimo nella criminalità organizzata e lui non si era fatto pregare.
Solo quando, in una caldissima giornata di aprile 2006, con quei ragazzi di Corleone che ancora oggi sono lì a combattere l'omertà e la violenza assassina della mafia anche grazie ai frutti della legalità raccolti dalla terra, mi trovai di fronte a quel buco scavato sotto i miei piedi, capiì quanto potesse essere infimo il peggior istinto dell'uomo. Capiì solo quel giorno e in quel momento di raccoglimento a quale livello di inimmaginabile bassezza possa abbassarsi un uomo nel nome di un credo mortale come quello di Cosa nostra.
Vengo assillato dal pensiero di quell'istinto omicida che scava come una goccia il cervello di un mafioso, ogni volta che mi fermo di fronte alla stele che a Capaci ricorda i morti di quella strage che il 23 maggio 1992 sconvolse l'Italia. Il motivo è doloroso: il nome che ricorre in quella strage e nell'omicidio di quell'adolescente è sempre lo stesso: Giovanni Brusca.
Questi traumi emotivi mi hanno consentito di affrontare con una sensibilità diversa la lettura del libro di Saverio Lodato, che viene proposto ai lettori di questa collana editoriale. Nel libro – nel quale Brusca mette a nudo se stesso svolgendo i fili dei suoi ricordi dall'infanzia alla cattura passando attraverso decine di omicidi e stragi – si legge il manifesto di un uomo sconfitto che mette, grazie al sapiente lavoro di ricostruzione di Lodato, a disposizione la sua sconfitta per farci conoscere, pagina dopo pagina, tutto ciò che rappresenta Cosa nostra: sangue e negazione della vita ma anche (oggi diremmo soprattutto) omertà, connivenza e collusione.
Nel libro di Lodato – che ha incontrato Brusca nel carcere romano di Rebibbia dove era recluso – si legge: «Ho ucciso Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l'auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento». Queste frasi rendono chiaro il titolo del libro ma solo la lettura può trasmettere quella lezione di legalità che scorre dalla sconfitta di un mafioso, oggi collaboratore di giustizia, che nel suo passato non ha avuto pietà neppure per un adolescente.
r.galullo@ilsole24ore.com
© Riproduzione riservata