Italia

Dossier Livatino, uomo e giudice sulla via della beatificazione

  • Abbonati
  • Accedi
Dossier | N. (none) articoliOra Legale

Livatino, uomo e giudice sulla via della beatificazione

Un predestinato strappato indegnamente alla vita dalla “stidda” agrigentina, l'organizzazione mafiosa che contende a Cosa nostra il controllo di quella provincia. Rosario Livatino, il giudice siciliano ucciso ad appena 38 anni in un agguato mafioso la mattina del 21 settembre ‘90 sul viadotto Gasena lungo la Ss 640 Agrigento-Caltanissetta mentre – come sempre senza scorta e con la sua Ford Fiesta amaranto – si recava in Tribunale, un predestinato lo era davvero.

Laureato in Giurisprudenza ad appena 22 anni con il massimo dei voti e la lode, dal 29 settembre '79 al 20 agosto ‘89, come sostituto procuratore della Repubblica ad Agrigento, si occupò delle più delicate indagini antimafia, di criminalità ma anche (nell'85) di quella che poi negli anni ‘90 sarebbe scoppiata come la “Tangentopoli siciliana”.

Era un predestinato, Livatino. La sua formazione e la sua vita erano segnate dal solco della libertà e della Giustizia. Quella vera, quella di chi non solo non fa sconti a nessuno quando l'amministra in nome del popolo – fu tra i primi pm a chiedere di interrogare in quegli anni un ministro, l'ex Dc Calogero Mannino – ma non si dimentica mai di essere, ancor prima che un magistrato, Uomo tra gli uomini.

Rosario Livatino, il giudice siciliano che morì in una scarpata cercando una disperata fuga a piedi per sfuggire a killer che lo inseguivano senza pietà, aveva chiara la sua missione di Magistrato e di Uomo e la manifestava senza paura. Il 7 aprile 1984, al Rotary Club di Canicattì, lui che non amava apparizioni pubbliche e non frequentava i salotti tanto di moda in Sicilia dove, sotto lo stesso tetto, spesso si incontravano (si incontrano?) diavolo e acquasanta, lasciò di stucco chi lo ascoltava, proprio lì e proprio nella sua città natale. Quando si trattò di parlare della libertà e del modo in cui un Servitore dello Stato deve declinarla di fronte alle sirene di partiti, sette o associazioni, disse: «Ciò non significa certo sopprimere nell'uomo-giudice la possibilità di formarsi una propria coscienza politica, di avere un proprio convincimento su quelli che sono i temi fondamentali della nostra convivenza sociale: nessuno può difatti contestare al giudice il diritto di ispirarsi, nella valutazione dei fatti e nell'interpretazione di norme giuridiche, a determinati modelli ideologici, che possono anche esattamente coincidere con quelli professati da gruppi od associazioni politiche. Essenziale è però che la decisione nasca da un processo motivazionale autonomo e completo, come frutto di una propria personale elaborazione, dettata dalla meditazione del caso concreto; non come il portato della auto collocazione nell'area di questo o di quel gruppo politico o sindacale, così da apparire come in tutto od in parte dipendente da quella collocazione».

La sua concezione monastica sul ruolo del Giudice e dell'Uomo, non deve sorprendere: nella sua macchina fu trovata l'agenda di lavoro. Nella prima pagina spiccava la sigla StD, sub tutela Dei, a ricordo della invocazioni con le quali, in età medievale, si chiedeva l'assistenza divina per adempiere i pubblici uffici. Il giorno dei funerali il padre Vincenzo affermò: «Rosario non è un eroe, è un buon figlio, un buon siciliano». Per quel buon figlio, quel buon siciliano – la cui vita professionale e umana il libro di Nando Dalla Chiesa percorre con amore – il 21 luglio 2011 la Chiesa ha avviato il processo diocesano di beatificazione.

Rosario Livatino, un predestinato strappato indegnamente alla vita dalla stidda per volontà di sistemi criminali rimasti nell'ombra, attraverso questo libro dona lezioni immortali di legalità che solcano l'anima.

© Riproduzione riservata