Suona strano, per me, scrivere di Peppino Impastato. Suona strano perché la sua eredità morale è la più contesa tra tutte quelle alle quali, in questi 30 anni di professione giornalistica, mi è capitato di assistere. Anzi mi correggo: anche prima, quando, da studente liceale, vedevo spuntare il suo nome tra gli striscioni dei manifestanti, nel segno di questa o quell'altra battaglia ideologica. Gente che, magari, neppure sapeva bene chi fosse e cosa rappresentasse per la cultura italiana. Sissignori: per la cultura.
Suona strano, per me, scriverne, perché ritenevo, ritengo e riterrò sempre che contendersi l'eredità morale di Peppino Impastato non solo sia esercizio vano ma moralmente inaccettabile. La sua storia personale e quella familiare sono e rappresentano un unicum di fronte al quale l'unico atteggiamento dovrebbe essere la conoscenza. E il rispetto. L'uno diretta conoscenza dell'altra e, insieme, foriere di un insegnamento di vita, quello sì, al quale ispirarsi.
Bene fa dunque il fratello e coloro i quali a lui sono stati più vicini, a difendere la sua memoria, nel momento in cui – soprattutto in questi ultimi anni è successo spesso – il suo nome viene tirato in ballo da politici e politicanti, carneadi e giullari, che sbandierano ai quattro venti la loro capacità non solo di seguirne le tracce ma di essere, talvolta, addirittura più decisi nel marcare le orme di legalità di quanto lo fu Peppino in vita.
La sua storia, la sua (brevissima) vita contro la mafia non sono ripetibili non perché sia impossibili alle umane sorti ma perché nessuno ha quella tensione morale e quella preparazione culturale che sono in grado di armare la ribellione contro le mafie e il disvalore mafioso.
Lui, all'epoca tra i pochi, aveva meravigliosamente capito (ma prima ancora intuito, perché l'intuizione è quella conoscenza immediata che non si avvale del ragionamento o della conoscenza sensibile) che la sua ribellione non doveva scatenarsi, con profondi saperi e leggera ironia, solo contro Cosa nostra ma contro quella ramificata rete di sistemi criminali dai quali tutte le mafie traggono una mortale forza linfatica.
Alla pregressa storia familiare aveva fin da liceale risposto con la “sua” storia, di avvicinamento alla politica del Psiup, il Partito socialista di unità proletaria, attivo tra il 1964 e il 1972. Con altri giovani fondò un giornale, “L'Idea socialista” che, dopo alcuni numeri, sarà sequestrato. Il giovane Peppino (all'epoca aveva 19 anni) scriverà, tra gli altri, un servizio sulla “marcia della protesta e della pace” organizzata nel 1967 tra Trappeto e Partinico da Danilo Dolci, uno dei padri italiani della “non violenza”, un sociologo ed educatore che dalla natia provincia triestina si era trasferito per amore della Sicilia e dei siciliani nel cuore della provincia palermitana per tracciare il solco della protesta pacifica contro ogni tipo di cultura banditesca, mafiosa e criminale.
A 28 anni, lui giovanissimo, diventò un centro di riferimento per i giovani della provincia di Palermo. Quando organizzerà il circolo “Musica e cultura”, all'interno dell'associazione lascerà spazio al “collettivo femminista” e al “collettivo antinucleare” e solo quando tensioni, crisi e gelosie all'interno della cosiddetta sinistra rivoluzionaria, diventeranno insopportabili per il suo animo ribelle, con i suoi amici più cari (compagni, si diceva un tempo) darà vita, appena un anno prima della morte, a Radio Aut, un'emittente autofinanziata che indirizzò i suoi sforzi e la sua scelta nel campo della controinformazione e soprattutto in quello della satira nei confronti della mafia e degli esponenti della politica locale.
Il suo impegno giornalistico di denuncia si sposò ancora alla politica e nel 1978 partecipò con una lista che aveva il simbolo di Democrazia Proletaria, alle elezioni comunali a Cinisi. Viene assassinato il 9 maggio 1978, qualche giorno prima delle elezioni e qualche giorno dopo l'esposizione di una documentata mostra fotografica sulla devastazione del territorio operata da speculatori e gruppi mafiosi: il suo corpo venne dilaniato da una carica di tritolo posta sui binari della linea ferrata Palermo-Trapani. Le indagini furono in un primo tempo orientate sull'ipotesi di un attentato terroristico consumato dallo stesso Impastato o, in subordine, di un suicidio “eclatante” e solo l'11 aprile 2002 arrivò la condanna all'ergastolo di Gaetano Badalamenti, dalla cui abitazione la casa di Peppino distava 100 passi.
Alla luce di questo percorso, unico e inimitabile, ben raccontato in questo libro, può ancora qualcuno arrogarsi il diritto di appropriarsi dell'eredità di Giuseppe Impastato, drammaticamente morto per mano dei sistemi criminali a Cinisi il 9 maggio 1978?
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