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Nuovo Senato, l’ipotesi listino è l’unica concessione della maggioranza

Il listino separato con cui eleggere direttamente i consiglieri regionali destinati al futuro Senato è l’unica concessione che la maggioranza è disposta a fare sulla composizione della nuova Camera delle autonomie. Senza cambiare l’articolo 2 del ddl costituzionale, che per i tecnici renziani non può essere ritoccato perché già ratificato da una doppia lettura conforme, e senza riaprire la partita Italicum. Ma la proposta non fa breccia nella minoranza Pd e in Forza Italia, che insistono: soltanto un accordo politico sull’articolo 2 senza scorciatoie può far viaggiare la riforma lungo binari sicuri.

All’indomani dell’apertura del capogruppo dei senatori Pd Luigi Zanda alla soluzione di compromesso dei listini (si veda l’intervista pubblicata sul Sole 24 Ore di ieri), i contorni della partita che si riaprirà a settembre a Palazzo Madama si fanno più definiti, ma l’esito non meno incerto. «Nessuna chiusura al confronto ma non si riparte da capo», ribadisce la ministra Maria Elena Boschi, che ieri ha augurato buone vacanze con un tweet: «Si chiude un anno di grandi risultati parlamentari. Adesso qualche giorno di ferie e si riparte». In filigrana c’è il mood: ciò che è stato incassato non si rimette in discussione. Il pericolo, avverte la vicesegretaria dem Debora Serracchiani, è «consegnare il Paese a Grillo e Salvini».

L’ipotesi del listino figura tra gli emendamenti targati Ncd. Perché «il Senato non sarebbe snaturato nella sua funzione territoriale - spiega il coordinatore Gaetano Quagliariello - e la sovranità popolare sarebbe rispettata». L’articolo 2 resterebbe intatto, «senza disfare la tela fin qui faticosamente tessuta» (come ha auspicato Giorgio Napolitano), e si potrebbe intervenire sul procedimento legislativo (art. 10 del ddl) affidando alla legge ordinaria la disciplina delle modalità di elezione dei nuovi senatori.

Nel Pd l’idea incassa il placet della minoranza “dialogante” “Sinistra è cambiamento” del ministro Maurizio Martina. «È una proposta su cui si può cercare e trovare una mediazione», sostiene Francesco Russo. «Bene cambiare senza toccare l’articolo 2: quegli emendamenti mettono in discussione il Governo», gli fa eco dalla Camera Cesare Damiano. Il match, si sa, si gioca sul filo dei numeri e i pontieri sono già al lavoro. In primis per sondare la compattezza dei 28 dissidenti dem che hanno firmato per il Senato elettivo e che per ora respingono ogni mediazione. «Zanda ha il merito di tenere aperta la porta a una discussione», commenta Massimo Mucchetti. «Ma la soluzione che propone toglie dignità costituzionale al principio dell’elezione diretta dei rappresentanti del popolo». Il perché lo spiega il deputato bersaniano Alfredo D’Attorre: «Lascerebbe un meccanismo di nomina dei senatori. Ma con una Camera di nominati risultato dell’Italicum non possiamo avere anche un Senato di nominati». «Si scelga la via maestra e non inutili scorciatoie», sintetizza Federico Fornaro. «Noi chiediamo che sia previsto in Costituzione che il Senato venga eletto dai cittadini».

La proposta di Zanda non pare tentare neppure Forza Italia, che continua a ripetere: sulle riforme Renzi non ha la maggioranza. «Mettiamoci d’accordo sul meccanismo - afferma il presidente dei senatori azzurri Paolo Romani - ma l’importante è che sia chiarito nell’articolo 2. L’ipotesi di un’elezione diretta non si può tecnicamente inserire da qualche altra parte. Mi auguro che prevalgano ragionevolezza e buon senso. Anche noi vogliamo la riforma».

Difficile però parlare di buon senso davanti alla valanga di 513.449 emendamenti piovuti sul testo in commissione, di cui 510.293 soltanto dalla Lega, che hanno costretto oltre 150 dipendenti di Palazzo Madama a rinunciare alle ferie. Con effetti anche economici: stampare i 100 tomi in cui sono stati raccolti in 321 copie, una per ogni senatore, costerebbe 930.900 euro. Quasi un milione.

Sulla carta a favore degli emendamenti sul Senato elettivo potrebbero votare 176 senatori, se il presidente del Senato Pietro Grasso ammetterà le proposte di modifica all’articolo 2 (fin qui non ha fatto mistero di considerarlo emendabile). Tra queste anche un emendamento presentato da Giorgio Pagliari, della maggioranza Pd, che propone di sostituire nella frase «La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti» la preposizione “dai” (introdotta alla Camera) con “nei”. Proprio su quel ritocco si appiglia la minoranza del partito per far considerare la norma modificabile in terza lettura. Ma Pagliari respinge il rischio boomerang. «Sono pronto a ritirarlo», dice. Ma fa notare che «potrebbe facilitare la soluzione del listino» ed eviterebbe contraddizioni.

Certo è che gli equilibri ballano intorno a cifre irrisorie perché la soglia necessaria alla maggioranza è di 161 voti e i dieci verdiniani del nuovo gruppo Ala non bastano a garantirla: convincere manciate di senatori dentro e fuori dal Pd è la sfida da qui a settembre. Renzi tira dritto e ai suoi ripete: «L’articolo 2 non si tocca, sul resto si discute. Ma nessuno pensi di bloccare la riforma». Con l’obiettivo di fermare il governo nascondendosi dietro tonnellate di emendamenti.

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