Quella che segue è la presentazione del libro “Maledetta mafia – Io, donna, testimone di giustizia con Paolo Borsellino” di Piera Aiello e Umberto Lucentini “editato nella Collana Ora Legale e da oggi per una settimana in edicola con il Sole-24 Ore. Sarà poi possibile, come tutti i 20 volumi, acquistarlo suwww.ilsole24ore.com/oralegale
«Storie di donne, fatte di dolori e di fatica che a un certo punto ho continuato da sola perché Rita si è suicidata. Dal '97 in poi, conclusi gli interventi nelle aule giudiziarie, giro in tutte le scuole d'Italia e fuori dai confini nazionali per parlare dell'importanza della donna nei contesti mafiosi e per far capire ai ragazzi che fuori dalla mafia c'è un mondo migliore, fatto di cose belle».
Quasi due anni fa, Piera Aiello presentò così all'Università di Reggio Emilia, con parole semplici e vere, il libro “Maledetta mafia - Io, donna, testimone di giustizia con Paolo Borsellino”, scritto con il collega giornalista Umberto Lucentini uno tra i pochi che, come la stessa Aiello ricorderà, ha saputo e voluto capire.
Piera Aiello aveva solo 18 anni quando sposò Nicolò. Nove giorni dopo il matrimonio, il suocero, Vito Atria, un piccolo mafioso locale, venne assassinato. Nel 1991 la stessa sorte tocca al marito, sotto i suoi occhi. Dopo quell'omicidio in Piera scatta qualcosa. E iniziano due nuove vite che, come lei stessa scrive nel libro, iniziano a correre parallele: «Ho due vite che a volte si incrociano, si sovrappongono, si respingono e si fondono. Ho due vite che si accompagnano da quando, una mattina, la morte mi è entrata in casa a soli ventuno anni. Sono stata la moglie di un piccolo boss di un paese della Sicilia. Poi sono diventata vedova di un mafioso, vestita a lutto come impongono le regole della mia terra, con una bimba di tre anni da crescere e una rabbia immensa nel cuore. È in quel momento che il destino ha messo un bivio lungo il mio percorso: dovevo scegliere quale futuro dare a mia figlia Vita Maria».
La scintilla che le farà abbandonare la precedente vita ha un nome e un cognome: Paolo Borsellino, che «una mattina mi ha preso sottobraccio e mi ha piazzato davanti ad uno specchio. Eravamo in una caserma dei carabinieri. Mi ha fatto una domanda semplice e terribile insieme, mentre la mia immagine si rifletteva accanto alla sua. Da allora, da quando lo “zio Paolo” mi ha accompagnata davanti a quello specchio e mi ha ricordato chi ero, da dove venivo e dove sarei dovuta andare, sono diventata una testimone di giustizia: non conoscevo il vero significato di queste tre parole, “testimone di giustizia” e di conseguenza ciò che mi apprestavo a essere. Io non ho mai commesso reati, né sono mai stata complice dei crimini di mio marito e dei suoi amici, gli stessi che poi ho accusato nelle aule dei Tribunali e nelle Corti d'assise. Quel che è certo è che la mia storia, la mia vita, è stata rivoluzionata dalla morte».
Compresa la morte di Rita Atria, sua cognata, che a 17 anni decise di ribellarsi al sistema mafioso. Tuttavia, dopo l'assassinio di Borsellino, con il quale era riuscita ad aprirsi, non riuscì a reggere al dolore e si tolse la vita il 26 luglio 1992. «Fimmina lingua longa e amica degli sbirri» disse qualcuno e così al suo funerale non andò nessuno. Neppure sua madre, che l'aveva ripudiata e minacciata di morte perché quella figlia così poco allineata, per niente assoggettata, le procurava stizza e preoccupazione. Inoltre, sia a lei che a sua nuora, Piera Aiello, che aveva plagiato a picciridda, come scrive ancora Graziella Proto sul sito www.ritaatria.it, non perdonava di aver “tradito” l'onore della famiglia.
«Forse un mondo onesto non esisterà mai ma chi ci impedisce di sognare forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo» scriveva la diciasettenne Rita poco prima di suicidarsi e con questa frase di speranza concludiamo augurandovi buona lettura.
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