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Dossier L’Eurozona va rifondata. Serve un bilancio ad hoc

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Dossier | N. 47 articoliWorkshop The European House - Ambrosetti a Villa d'Este

L’Eurozona va rifondata. Serve un bilancio ad hoc

Emmanuel Macron è sempre stato uno che è andato dritto per la sua strada, seguendo le proprie passioni, idee e convinzioni, anche a rischio di scandalizzare e creare scompiglio intorno a sé. Fin da quando, studente del penultimo anno al liceo dei gesuiti di Amiens, si è innamorato (ricambiato) dell'insegnante di letteratura francese, che ha vent'anni più di lui e che ha sposato nel 2007.

A 37 anni, ha già alle spalle una vita piuttosto intensa. Pianista di buon livello, laureato in filosofia, ha frequentato l'immancabile Ena (la prestigiosa scuola dell'alta amministrazione pubblica) e per qualche anno ha fatto l'ispettore delle Finanze, prima di passare al privato e diventare banchiere d'affari da Rothschild. Dicono uno dei più promettenti. Nel 2007 è stato uno degli animatori della commissione Attali sulle liberalizzazioni. Moderatamente (o pragmaticamente) di sinistra, pur avendo rinunciato a rinnovare la tessera del partito socialista, nel 2011 ha sostenuto la candidatura di François Hollande. Senza rinunciare a dire la sua. Come quando, a proposito della supertassa del 75%, ha parlato di “Cuba senza il sole”.

Nel 2012 viene chiamato a fare il vice segretario generale all'Eliseo. Ed è lui l'ispiratore del cosiddetto Cice, il credito d'imposta da 40 miliardi che sostanzialmente restituisce alle imprese gran parte dei maxi aumenti fiscali del 2011, 2012 e 2013. In cambio di qualche centinaio di migliaia di assunzioni, che tardano ad arrivare. Ad agosto dell'anno scorso, tra i fischi di una sinistra ancora maggioritariamente massimalista, viene nominato ministro dell'Economia. Gli viene di fatto affidato l'incarico di riformare l'apparentemente irriformabile Francia nel nuovo Governo del riformista Manuel Valls dopo la svolta decisa da Hollande, che nei primi due anni ha sbagliato quasi tutto. A partire proprio dal casting.

Macron – che non è andato, perché non invitato, al rituale appuntamento di fine estate del partito socialista ma a quello del Medef, la Confindustria francese, dov'è stato accolto come una rock star - si è dato da fare. A parole, continuando a stigmatizzare tabù e ideologie della vecchia sinistra (le 35 ore, una certa cultura ostile all'impresa, al successo, al denaro, alla concorrenza) senza troppi peli sulla lingua. E nei fatti: la legge che porta il suo nome, appena varata, liberalizza alcuni settori, consente finalmente l'apertura domenicale e serale dei negozi, modifica le regole sui licenziamenti, consente una certa flessibilità degli orari e delle retribuzioni alle aziende in difficoltà.

Ma, spiega il ministro nel suo ufficio al terzo piano di Bercy, si tratta solo del primo passo. Per far ripartire una Francia che da anni ha una crescita debolissima (addirittura nulla nel secondo trimestre di quest'anno), con una spesa pubblica e una pressione fiscale record e oltre 3 milioni di disoccupati, bisogna continuare a cambiare, a fare le riforme. Mostrando una determinazione che sta iniziando a pagare in termini di maggiore popolarità e di condivisione da parte dell'opinione pubblica.

«In un contesto generale difficile, con l'economia mondiale che ha perso alcuni dei suoi motori trainanti, a partire dai Bric, la Francia è l'archetipo di un sistema, di un modello europeo che si deve trasformare per essere competitivo. La Francia ha due caratteristiche proprie: un'economia più inerziale, con un settore pubblico più grande che d'un lato consente di reggere meglio ai colpi della crisi ma che dall'altro riparte più lentamente; ha inoltre avviato troppo tardi il processo di riforme che avrebbe dovuto iniziare tra il 2003 e il 2006».

Quindi?
Quindi ci ritroviamo a dover fare un doppio lavoro, di riduzione della spesa pubblica e di riforme strutturali, in una fase economica meno favorevole.

Quali saranno le prossime tappe?
La considerazione di fondo è che c'è un eccesso di regolamentazione, di rigidità, un po' ovunque, funzionale alla preservazione dell'esistente. Più in particolare, il prossimo appuntamento è con il mercato del lavoro. Serve più flessibilità, bisogna privilegiare prossimità e sussidiarietà dando più spazio agli accordi a livello di settore e di singola impresa. Su orari e retribuzioni. Ampliando quello che oggi è già possibile fare nelle situazioni di difficoltà. Non si tratta di deregolare, di derogare, per il piacere di farlo, ma di permettere alle aziende e ai settori di cogliere le nuove opportunità che si presentano. Anche se questo all'inizio avrà dei costi, è schumpeteriano”.

Questo significa rimettere in discussione le 35 ore?
L'orario legale non è il vero problema. Tanto più che l'orario effettivo è ben più alto, anche se inferiore a quello tedesco. La vera sfida è quella di consentire di meglio adattare l'organizzazione del lavoro ai bisogni delle imprese e dei dipendenti. Ad esempio con accordi di annualizzazione degli orari.

Rimane un problema di costo del lavoro, appesantito da un cuneo fiscale che è il più ampio dei grandi Paesi sviluppati.
Grazie ai 40 miliardi del Cice lo stiamo rapidamente riducendo, tornando ai livelli tedeschi. E anche al di sotto.

E la spesa pubblica? Siamo ancora al 57% del Pil. Non bisognerebbe ridurla di più e più velocemente?
Abbiamo già programmato una diminuzione di 50 miliardi nei prossimi tre anni, nessuno lo aveva mai fatto prima. Ciò detto la Francia non è la Gran Bretagna. Il contesto sociale è completamente diverso e non possiamo non tenerne conto. Abbiamo delle opzioni collettive diverse. Inoltre siamo la seconda economia europea, bisogna stare attenti anche all'impatto più globale di scelte che rischiano di essere recessive. Infine le riforme strutturali avranno a loro volta un effetto benefico indiretto sulla spesa, anche se certo a medio termine, tra i 18 mesi e i 5 anni.

Avete in programma anche un intervento sul sistema delle indennità di disoccupazione, uno dei più generosi al mondo, in rosso per 26 miliardi, con un deficit annuo di 4 miliardi?
Le parti sociali cominceranno presto il negoziato per rivedere il dispositivo attuale. Vedremo. Ma anche in questo caso credo che l'approccio dovrebbe essere quello di conciliare la sicurezza di chi cerca un lavoro, o l'ha perso, e l'impulso alla ripresa dell'attività. Il nostro sistema deve adattarsi meglio ai cicli economici, con un meccanismo più dinamico. Certo c'è il peso degli errori del passato, del deficit enorme accumulato negli anni di ciclo alto.

I risultati delle riforme richiedono tempo. Ma di tempo ce n'è davvero poco. Cosa si può fare a breve?
Un sostegno può venire dal rilancio della domanda a livello europeo, con un importante programma di investimenti. Il deficit di investimenti è compreso tra i 600 e i mille miliardi. Serve quindi un piano Juncker Plus, con strumenti finanziari conseguenti.

A proposito di Europa e di Eurozona più in particolare, cosa si può fare per rilanciare un processo che sembra arenato?
Dobbiamo lavorare a una nuova roadmap che ridia un senso, una visione al progetto europeo. Dopo l'era dei fondatori e quella dei gestori tocca ai rifondatori, questo è il nostro compito. L'importante è rifiutare lo statu quo. Quanto alla zona euro, serve un consistente budget proprio, di cui l'Esm è il nocciolo duro e alimentato a termine da una risorsa fiscale, con un commissario ad hoc che abbia l'autonomia per gestire, decidere la redistribuzione e ovviare agli squilibri interni. Con un Parlamento specifico, spin off di quello europeo.

Per fare questo, e quindi modificare i trattati con una più forte cessione di sovranità, serve una classe politica di grande qualità e con tanto coraggio. Non mi pare che ci sia.
La qualità deve rivelarsi in questa occasione. L'alternativa è quella dei populismi e degli egoismi nazionali. Questo è il vero pericolo.

Quello della Grecia è un dossier finalmente archiviato?
Diciamo che l'accordo di agosto è il migliore possibile e che abbiamo trovato una soluzione a breve termine. Certo nei prossimi anni dovremo ancora occuparcene.

Il rallentamento cinese è un vero pericolo per la stabilità dell'economia mondiale?
Non si tratta più di un pericolo potenziale ma di una realtà. Come ha dimostrato il crack borsistico di agosto. Non c'è dubbio che i problemi di assestamento dell'economia che ha trainato il mondo negli ultimi dieci anni avrà un impatto sull'economia globale dei prossimi anni. Anche se sarà meno forte per Paesi come la Francia e l'Italia che in Cina esportano meno. Mi sembra comunque che i dirigenti cinesi stiano facendo le scelte giuste.

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