L’Europa corre meno di quanto si vorrebbe? Gli emergenti non ripartono? «È il momento giusto per investire», dice Davide Serra dal workshop Ambrosetti di Cernobbio. Svelando che in Algebris Investments, asset manager con 2,5 miliardi di dollari in gestione, «a inizio agosto, mentre tutti compravano, abbiamo deciso di andarcene in vacanza riducendo al minimo il rischio». Una settimana fa, invece, quando tutti vendevano, l’inversione di marcia: «Il 24 agosto abbiamo più che raddoppiato l’esposizione media dei nostri fondi sull’azionario degli emergenti e dell’Europa».
Nel primo caso, gli occhi sono puntati proprio sui mercati generalmente considerati più “pericolosi”, vale a dire il Brasile fresco di recessione e la Cina, spauracchio d’agosto (e d’inizio settembre): «Abbiamo coperto le posizioni short ed elevato l’esposizione del 10% su questi mercati in valuta locale, perché tra il deprezzamento della valuta e il valore dei listini ci troviamo ai prezzi più bassi dal 2009. E questa situazione evidentemente più che sconta la penalizzazione dovuta al rallentamento dell’economia reale».
E ancora di più vale per l’Europa, spiega Serra a Il Sole 24 Ore. «Siamo molto positivi, perché rispetto al 2009 il listino europeo si è deprezzato del 33%, mentre quello americano si è apprezzato del 20. C’è un gap del 50%, e se sei un investitore in dollari, come il 70% degli istituzionali del mondo, mai come negli ultimi 40 anni oggi è attraente un investimento in euro, per lo meno se la logica è di medio-lungo periodo come la nostra». E a differenza degli emergenti, dal punto di vista dell’economia reale l’eurozona può ritrovarsi in mano un poker d’assi: «Le riforme strutturali di Paesi come la Spagna e l’Italia, che procedono sulla giusta strada, il crollo dell’euro e delle materie prime, i tassi più bassi di sempre con le banche che finalmente iniziano a sfruttarli finanziando le imprese. Meglio di così non poteva andare».
E le preoccupazioni di Draghi, allora? «Sono corrette, perché la situazione attuale comprende anche risvolti problematici come l’eccesso di capacità produttiva, la disoccupazione, l’inflazione troppo bassa. Ma per la crescita che ci aspettiamo dai mercati azionari basta anche un Pil a velocità moderata, dell’1-1,5% all’anno: rispetto a un Btp o a un Treasury non c’è dubbio, conviene investire nell’azionario». Tanto è vero che per il numero uno di Algebris nel portafoglio ideale di un 40enne che ragiona sul lungo periodo oggi il 50% deve essere investito in azioni, «il 10% in Giappone, il 10 nei Paesi emergenti, il 30% negli Usa ma almeno la metà in Europa». E il resto? Serra non ha dubbi: «Reddito fisso, focalizzato su titoli ibridi bancari delle banche sistemiche nei paesi sviluppati, dove gli stress test della Bce oppure della Fed sono a prova di bomba e rendono questi investimenti particolarmente sicuri».
E l’Italia? «La scarsa profittabilità delle nostre aziende che lamentiamo da anni oggi la rende un Paese molto attraente. Su 100 euro di ricavi, oggi gli utili netti ammontano a 10 euro negli Usa, 6 in Europa e uno solo in Italia. È un contesto favorevole, perché oggi si può comprare pagando multipli molto bassi e domani capitalizzare l’effetto della ripresa, e delle riforme che - dal cuneo fiscale al jobs act - agiscono proprio sui fattori che più di tutti hanno penalizzato la produttività e quindi la profittabilità delle nostre aziende».
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