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Italia, salari in deflazione. Perché siamo (quasi) gli unici in Europa a tagliare gli stipendi

Cipro, Grecia, Italia. Cosa accomuna i tre Paesi? Sono gli unici dell'Europa a 28 ad aver registrato una diminuzione di salari e stipendi per ora lavorata nel secondo trimestre 2015: -0,2% in Italia e -1,2% a Cipro, mentre Atene (in assenza di numeri precisi sulle retribuzioni) si aggiudica il più brusco calo del costo del lavoro su scala continentale (-2,9%). Una “deflazione salariale” che contrasta con i rialzi registrati per l'Euro-zona (+1,9%) e l'Unione Europea (+2,1%), dal Regno Unito (+2,6%) alla Germania (+3,4%). La fotografia è emersa dalle ultime statistiche del Labour Cost Index, l'indice dei costi del lavoro dell'Eurostat.

Un calo a tutta linea
L'indicatore, calibrato sul breve termine, cerca di inquadrare le spese sostenute dalle aziende con il calcolo del rapporto tra costo del lavoro e totale di ore lavorate. La dinamica da trimestre a trimestre è poi individuata da due fattori principali, cioè stipendi e salari (wage and salary costs, o Wag) e “costi non salariali” (non wage cost, come le tasse a carico delle aziende). Gli elementi concorrono al risultato finale, ma non si muovono su livelli identici. Nell'ultimo trimestre, ad esempio, salari e stipendi sono cresciuti dell'1,9% contro lo 0,4% dei costi non salariali nell'Euro-zona, mentre nel resto dell'Unione Europea il rapporto si è fissato su un +2,1% nelle retribuzioni contro l'1,1% di spese «diverse dalle retribuzioni».
L'Italia ha registrato una flessione generale dello 0,4% nei costi del lavoro che si riflette in un calo dell'1,1% nei fattori diversi dalla retribuzione e, appunto, un taglio dello 0,2% in busta paga. Il trend è omogeneo, tra i settori sotto la lente dell'Eurostat: nel secondo trimestre dell'anno, stipendi e salari sono scivolati a -0,1% nell'industria (Euro-zona a +2,4%, Unione Europa a +2,3%) e -0,5% nelle costruzioni (1,5% nei paesi dell'area euro, 2,3% nel resto d'Europa), restando pressoché invariati solo nei servizi: 0,2% contro il +2% dell'Euro-zona e il +2,3% dell'Unione Europa.

Sdogati (Politecnico): ridurre i salari ha un effetto catastrofico
Fabio Sdogati, ordinario di economia internazionale al Politecnico di Milano, guarda «con preoccupazione» al calo dei salari. L'equazione tra tagli ai costi e produttività non lo convince, soprattutto quando passa per una scure più netta sulle retribuzioni: «Mi sembra la stessa interpretazione di quanti hanno chiesto deflazione salariale in Grecia perché il costo del lavoro avrebbe fatto aumentare le esportazioni e la produzione. Salvo dimenticare che in Grecia non esiste la manifattura – dice al Sole 24 Ore -. In una situazione in cui la domanda interna non tira e il reddito pro capite è molto minore dei livelli pe-crisi, ridurre i salari ha un effetto catastrofico». Ma l'alleggerimento nei costi del lavoro, in generale, non può essere inteso come un segnale incoraggiante? «Non è vero che le aziende beneficiano della deflazione salariale perché la produttività è determinata dagli investimenti e dalle innovazioni. La Germania ha un costo del lavoro pari a 31,4 euro l'ora, l'Italia del 28, Cipro di 15. Chi sta meglio? La produttività permette di pagare bene».

Non perdiamo l'occasione dei talenti internazionali
Sdogati fa l'esempio dei talenti in fuga, i giovani professionisti italiani che si trapiantano all'estero in cerca di stipendi all'altezza del curriculum. La spinta al ribasso delle retribuzione ha, di fatto, ristretto le differenze retributive tra lavoratori più e meno qualificati. Una «occasione da non perdere» arriva dall'afflusso di capitale umano internazionale: «Quando guardiamo alla differenza tra ingegneri e qualificati vediamo differenze risibili, ma il problema è proprio che si sono voluti appiattire gli stipendi. Con i risultati che vediamo. Ora l'afflusso di professionisti stranieri può darci un'occasione importante, se le barriere non lo impediranno». Alcuni parlano di mismatch, il disallineamento tra domanda e offerta del mercato del lavoro. E c'è chi ha messo in dubbio la legittimità di corsi di studio estranei a quelli più “redditizi”, almeno sul breve periodo. «Dire che ci sono corsi di laurea inutili è un'interpretazione becera – dice Sdogati - È la domanda che è inadeguata, non l'offerta».

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