La parola che alla fine sembra aver convinto anche i più riottosi tra i dissidenti dem in Senato (fermo restando un gruppetto, pare, di 4 o 5 irriducibili) è «scelta». I futuri senatori non saranno «indicati» o anche «designati» (quest'ultima parola era stata usata da Matteo Renzi durante la direzione della svolta di lunedì) bensì «scelti» dai cittadini nell'ambito delle elezioni per il rinnovo dei Consigli regionali. Scegliere è ben più di designare, almeno agli occhi della minoranza dem, e assomiglia di più a quell'eleggere rivendicato per mesi che non si poteva scrivere nel quinto comma dell'articolo 2 - l'unico emendabile secondo il principio della “doppia conforme” - dal momento che al comma 2 è scritto che «i Consigli regionali eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti...». Dunque il famoso comma 5 suonerà così: «La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, sulla base della scelta degli elettori secondo quanto stabilito dalla legge della Repubblica di cui all'articolo 122». La legge nazionale deciderà i paletti, più o meno stringenti, all'interno dei quali questa scelta degli elettori dovrà avvenire. Mentre saranno poi le leggi elettorali regionali, che non sono tutte uguali, a decidere il meccanismo: listino (bloccato o con possibilità di preferenze), scelta autonoma da parte dell'elettore con un'apposita preferenza sulla scheda elettorale, il criterio secondo il quale ricoprirà anche il ruolo di senatore il consigliere che per ogni lista abbia avuto più preferenze.
Un'uscita più che onorevole alla minoranza dem, quella offerta ieri sera in Senato con la parola «scelta», e che permette all'ex segretario Pier Luigi Bersani di mettere gli occhiali rosa: «Si dice che decidono gli elettori, ed è quello che abbiamo sempre sostenuto». Tuttavia i capisaldi della riforma renziana restano: il Senato delle Autonomie è rappresentativo delle istituzioni territoriali, l'elezione resta giuridicamente (anche se non politicamente) un'elezione di secondo grado e i futuri senatori non godranno di un'indennità propria essendo già pagati dalle Regioni come consiglieri. Dopo mesi di polemiche, è per il premier una sostanziale vittoria politica. E la soluzione trovata accontenta anche i centristi di Angelino Alfano, che per primi avevano proposto l'idea dei “listini”. Un altro fronte aperto è quello delle funzioni del nuovo Senato, e anche su questo stamane sarà presentato un emendamento comune della maggioranza, a firma Anna Finocchiaro come “garante” dell'intesa. Com'è noto i poteri del Senato delle Autonomie sono stati un po' “sfoltiti” nel passaggio a Montecitorio. Ma un ritorno puro e semplice al testo del Senato non è stato ritenuto possibile, dal momento che i deputati lo avrebbero visto come un “affronto”. E allora se da una parte si ridà al Senato il potere di concorrere «alla funzione legislativa» e di esercitare «funzioni di raccordo tra l'Unione europea, lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica», dall'altra resta la dicitura «concorre a valutare» invece che «valuta» le politiche pubbliche e la verifica dell'attuazione delle leggi dello Stato.
Un terzo emendamento darà inoltre al Senato il potere di eleggere 2 dei 5 giudici di nomina parlamentare autonomamente e non in seduta comune. Mentre sull'allargamento della platea dei grandi elettori per l'elezione del presidente della Repubblica sembra non ci siano margini: l'ipotesi prevalente ieri notte era quella di riportare su questo punto il testo del Senato, che prevede il quorum della maggioranza assoluta dopo l'ottavo scrutinio laddove la Camera aveva cambiato prevedendo la maggioranza dei tre quinti dei votanti (invece che degli aventi diritto al voto) dopo il settimo. Ma questo tema non farà parte dei tre emendamenti che saranno presentati stamane: si lascerà spazio al dibattito parlamentare e semmai si interverrà più avanti con riformulazioni. Stesso discorso per gli altri punti che restano aperti, tutti relativi al Titolo V così come richiesto dai governatori e dalla Lega. Si tratta del rafforzamento dell'articolo 116 sul federalismo asimmetrico (le Regioni virtuose possono ottenere più poteri) e di un ritocco all'articolo 117 per ridare alle Regioni qualche funzione trasferita allo Stato.
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