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Il rischio dell’«indagine breve»

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l’analisi

Il rischio dell’«indagine breve»

Piero Calamandrei, sessant’anni fa, scriveva che è il «costume» a plasmare il processo, ben più delle sue regole.

Perché le regole - a cominciare da quelle costituzionali - «rimangono vive finché vi scorre dentro, come il sangue nelle vene, la forza politica che le alimenta: se questa viene meno, si atrofizzano e muoiono di sclerosi». Il ddl sul processo penale approvato ieri è il prodotto di un «costume» smarrito. Nel processo, ma anche nella politica. E per certi versi nell’informazione. Perciò la riforma, da sola, rischia di fallire gli obiettivi ambiziosi dichiarati da governo e maggioranza, peraltro non sempre tradotti in norme coerenti. Ciò spiega, forse, anche la genericità della delega sulle intercettazioni, che sembra una pistola puntata alla tempia del diritto di cronaca e pronta a sparare, non si sa ancora se a salve o per ferire. E spiega la demagogia delle dosi di carcere dispensate all’unanimità nonché l’enfasi eccessiva sulla “ragionevole durata del processo”, in particolare delle indagini, dietro la quale si nasconde l’immancabile diffidenza verso i magistrati.

Le novità procedurali, oltre che del «costume», sono orfane anche di un adeguato supporto di risorse e di misure deflattive. Le prime sono state forse concentrate più sul civile e sottratte al penale, una scelta politica seguita peraltro anche in molti uffici giudiziari «virtuosi» e presi a modello, come Torino, che oggi però ne paga un prezzo nel penale con i 26mila processi penali pendenti in Corte d’appello, l’arretrato più alto d’Italia. Quanto alle seconde, cruciale è la depenalizzazione dei reati minori, affidata al governo con una delega del 2014 e che scadrà a metà novembre, per decongestionare gli uffici giudiziari ed evitare di riempire il carcere di piccoli delinquenti. Tuttavia, il testo messo a punto l’anno scorso da un’apposita commissione ministeriale non è stato ancora trasmesso a Palazzo Chigi. La Lega già agita lo spettro della sicurezza, sapendo di far breccia su un governo un po’ ondivago che predica la decarcerizzazione e poi, però, cavalca gli aumenti di pena per furti, scippi e rapine votati nei giorni scorsi, e che lascia morire un’altra delega strategica, quella sulle pene alternative alla detenzione, scaduta all’inizio dell’anno e di cui non si sente più parlare.

Senza un impegno su questi versanti, molte nuove norme rischiano di restare sulla carta e potrebbero rivelarsi persino contropruducenti. Per esempio quelle sulla «durata certa delle indagini», che fissano paletti alle Procure per chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione, pena l’avocazione dell’indagine da parte del Pg d’appello, e che sanzionano disciplinarmente il ritardo nell’iscrizione della notizia di reato. Obblighi già esistenti ma che il ddl ha voluto rendere più stringenti e non senza conseguenze.

Prendiamo quel che è accaduto martedì scorso, a Genova: la Procura ha chiesto l’archiviazione del fascicolo riguardante un Pm di Firenze denunciato dal signor Maiorano (assistito dall’avvocato Taormina) perché non aveva indagato sufficientemente su Matteo Renzi. Molte delle 24 denunce presentate per presunti abusi del premier (dalla casa di Marco Carrai ai rapporti con il generale della Gdf Michele Adinolfi) erano state iscritte, infatti, nel modello 45 (le non notizie di reato) invece che nel modello 21 (notizie contro noti) e si erano chiuse con l’archiviazione ma i Pm genovesi hanno escluso qualunque omissione di doveri d’ufficio. Ebbene, ora facciamo uno sforzo di fantasia e immaginiamo che cosa potrebbe accadere con le nuove norme
sulle indagini.

Il Pm di Firenze, una volta ricevuta la denuncia, dovrebbe iscrivere subito Renzi nel modello 21 e la “notizia” si diffonderebbe in un attimo (non foss’altro per l’automatismo imposto dalle nuove norme) con grande risalto mediatico e relative strumentalizzazioni politiche. Se il Pm iscrivesse nel modello 45, potrebbe essere accusato di voler favorire il premier (formalmente la denuncia contiene un nome, un cognome e una notizia di reato, quindi tutti gli elementi per iscriverla nel modello 21) o, al contrario, di voler eludere il cronometro delle indagini, che parte con l’acquisizione della notizia di reato e la sua contestuale iscrizione nel modello 21, altrimenti il Pm ne risponde disciplinarmente. Insomma, avremmo questo scenario: fuochi d’artificio mediatici sul “premier indagato” e polemica politica a go-go, nonché Pm burocrati che, per evitare sanzioni disciplinari e polemiche, corrono a iscrivere chiunque. Avremmo anche uffici più intasati da notizie di reato iscritte, ancorché sgangherate, su cui svolgere quanto meno uno straccio d’indagine prima dell’archiviazione. E se i termini scadranno, tutto finirà sulle spalle dei Pg della Corte d’appello.

Politici, personaggi pubblici e istituzionali, manager di grandi imprese... Tutti indagati sulla base di una semplice denuncia, di un esposto. Pensiamo all’amministratore delegato di un grande gruppo industriale denunciato per appropriazione indebita o altro reato e quindi indagato senza alcuna valutazione preliminare del Pm. Pensiamo alle conseguenze della notizia sul mercato... Scenari possibili, frutto di regole forse solo simboliche, che però tradiscono la tendenza ormai di qualche anno a legiferare spinti da un sentimento di diffidenza verso le toghe.

Qualcuno obietterà che i danni sarebbero limitati se la stampa fosse più seria e prudente. Ma poiché ci viene ripetuto che è con il mondo reale che bisogna fare i conti, forse valeva la pena riflettere su queste conseguenze e sul fatto che una notizia di reato è materia spesso magmatica, che richiede un’attenta valutazione del magistrato. Dal quale si deve esigere professionalità e responsabilità, non la gestione burocratica della propria funzione.

Le norme approvate dalla Camera, invece, evocano «il processo breve» tanto agognato da Berlusconi: anche se quel titolo rifletteva un’esigenza giusta e condivisa (i tempi ragionevoli del processo), le norme sottostanti - al di là degli scopi reconditi dell’ex premier - erano di fatto irrealizzabili senza misure strutturali e adeguate risorse, e sarebbero state micidiali per la sorte
dei processi.

Da allora qualcosa si è mosso sul fronte organizzativo ma non abbastanza per pretendere “l’indagine breve” (esigenza ovviamente condivisa) da Pm che sono alle prese, ciascuno, con migliaia di fascicoli. Salvo volerli trasformare in burocrati, passacarte e irresponsabili.

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