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Cinque miliardi di interessi in meno nel 2015

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Cinque miliardi di interessi in meno nel 2015

  • –Vittorio Carlini

Ieri il BTp decennale ha archiviato la seduta con il rendimento all’1,72%. Certo: non è il valore minimo dell’anno. Inoltre, nell’asta del Tesoro, il governativo è stato collocato ad un tasso (in calo) dell’1,82%.

Ciò detto, si tratta comunque di un valore basso. Lontano anni luce da quello che, in pochi ormai se lo ricordano, il titolo di Stato raggiunse a fine 2011. A novembre, nel pieno dell’attacco speculativo legato alla crisi dei debiti sovrani di Eurolandia, il tasso del BTp arrivò a toccare il massimo del 7,48%. Cioè, circa 576 punti base in più di adesso. Insomma: un altro universo; una galassia lontana, per l’appunto, anni luce da oggi. Il passaggio alla nuova, attuale dimensione, ovviamente, non è stato indolore.

Diversi esecutivi si sono succeduti a Roma. Diverse manovre economiche, con forti tagli alla spesa pubblica, sono state approvate. Senza contare, poi, l’essenziale dispiegarsi della politica monetaria targata Mario Draghi. Dal famoso «Whatever it takes» (fine luglio 2012) all’avvio del Qe di marzo scorso, è indubbio che la strategia della Bce è stata essenziale per sostenere la struttura stessa dell’euro. Oltre, poi, ridurre lo stress sui titoli di Stato di molti Paesi periferici. In primis, quelli italiani.

La dinamica giocoforza ha portato diversi benefici al Belpaese. La riprova? La fornisce, seppure indirettamente, l’andamento degli interessi passivi pagati dallo Stato sul debito pubblico. Certo, la voce contabile è conseguenza di diverse variabili: dalla gestione del debito stesso fino ai trend di mercato. Al di là di ciò è, però, innegabile che nel 2012, anno in cui si è dispiegata maggiormente l’onda lunga della crisi, la «bolletta» finanziaria fu di 84,06 miliardi. L’anno successivo, invece, l’esborso è stato di 77,94 miliardi. Nel 2014, poi, il valore si è assestato a 75,18 miliardi. Per l’anno in corso, infine, le stime aggiornate del Def, indicano una spesa per interessi a circa 70 miliardi (intorno al 4,3% del Pil).

In tal senso, se il costo del debito fosse rimasto stabile ai livelli del 2012, il Belpaese avrebbe pagato circa 14 miliardi in più di spese complessive per interessi sul debito. Una boccata d’ossigeno non da poco per l’Italia e i suoi contribuenti.

Ma non è solamente la spesa per gli interessi sul debito. Un altro beneficio, cui il calo dei tassi ha contribuito, è il minore costo dei prestiti alle aziende. Molte società, infatti, hanno approfittato dei più bassi rendimenti da un lato rifinanziando (rinegoziando) i debiti con le banche; e, dall’altro, emettendo obbligazioni a tassi vantaggiosi. Una doppia dinamica che, liberando risorse per lo sviluppo del business, ha permesso di migliorare la redditività. E produrre, così, più ricchezza: sia per gli azionisti che per gli stakeholder.

Una riorganizzazione del debito che prosegue? Gli esperti rispondono di sì, sottolineandone alcune particolarità. Tra tutte: le società, in generale, non considerano (almeno nel medio periodo) il rischio tassi. Cioè, in molti si indebitano a tasso variabile senza definire adeguate coperture. Il che, seppure lo «zig zag» della Fed può indurre ad ipotizzare un mondo sempre caratterizzato dall’easy money, è un rischio che i direttori finanziari farebbero bene a valutare.

Fin qui alcune indicazioni sugli effetti del calo dei rendimenti e delle conseguenti strategie delle imprese. Quali però, allo stato attuale, le cause della diminuzione. In primis, per l’appunto, c’è l’intervento mensile da parte della Banca centrale europea. «Oltre a ciò, tuttavia - dice Sergio Capaldi di Intesa Sanpaolo -, va ricordato il ruolo delle attese sull’inflazione». «Quella stimata tra 5 anni, sul successivo quinquennio - fa da eco Antonio Cesarano di Mps Caital services -, viaggia intorno all’1,57%». Vale a dire un livello ben al di sotto degli obiettivi della Bce. L’indicatore, che a fine luglio era all’1,75%, «è certamente influenzato - conclude Capaldi - dal calo dei prezzi delle materie prime». Quindi non è così rappresentativo della congiuntura. E, però, proprio le stime sul costo della vita sono l’indizio che le politiche monetarie, con il calo dei tassi, non risolvono i problemi. L’economia reale ha bisogno di politiche industriali e veri piani di investimenti.

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