La cosa più incredibile, dopo 55 anni, è che non sia ancora stato possibile determinare con precisione quante persone siano davvero morte quella notte. Più di 1900 e meno di 2000, secondo le stime più attendibili, che provano anche ad azzardare un numero: 1909. Di certo quella del Vajont è stata una delle tragedie più gravi nella storia del nostro Paese, senza discussione.
Eppure la tragedia poteva essere evitata, se si fosse dato ascolto agli allarmi di alcuni tecnici in relazione alla situazione idrogeologica del territorio dove era stata progettata la diga. O forse se si fosse dato ascolto almeno al buon senso, perchè costruire una diga proprio sotto a una montagna che è stata chiamata Monte Toc (in friulano “marcio”, “sfatto”) non sembra il massimo della prudenza.
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Eppure i lavori, tra le proteste e le paure di molti abitanti di quella zona, erano andati avanti fino al completamento dell’opera. Il progetto avviato dalla Sade con un sopralluogo verso la fine degli Anni 40 era sfociato, quasi dieci anni dopo, nelle prime gettate di cemento. E la diga, rispetto ai piani iniziali, sarebbe stata addirittura più grande: alta 260 metri, con una “capacità” (o come si dice in gergo tecnico “invaso utile”) di 152 milioni di metri cubi. Un’opera imponente, che l’ingegner Carlo Semenza porta avanti anche basandosi sulla relazione rassicurante del professor Giorgio Dal Piaz, un luminare della geologia di quell’epoca. Altro che Monte Toc, la diga sarà sicura.
Eppure nel 1960, quando si era iniziato a riempirla per la prima volta, qualche segnale c’era stato. Non solo con i continui brontolii del Monte Toc, ma anche e soprattutto con la frana che si era staccata , il 4 novembre di quell’anno, e che aveva creato il panico nei paesi della valle. Circa 700mila metri cubi, finiti nelle acque (si era più o meno intorno ai 600 metri) senza fare alcun danno.
Ma il livello dell’invaso a poco a poco era stato alzato, fino ad arrivare il 4 settembre del 1963 a 710 metri, dieci oltre quello che era stato indicato come limite di sicurezza. Dieci metri che probabilmente non avrebbero significato nulla, visto il disastro che si stava preparando, vista la vastità della frana che da lì a poco si sarebbe staccata stravolgendo per sempre la geografia circostante.
L’ingegner Nino Biadene, subentrato allo scomparso Semenza, si era però accorto che qualcosa non funzionava, che bisognava tornare rapidamente sotto la quota di sicurezza. Il forte maltempo che imperversava aggiungeva preoccupazione a preoccupazione. E Biadene aveva così ordinato di svuotare rapidamente la diga, di abbassare il livello delle acque. Ma svuotare una diga non è come svuotare un lavandino: ci vuole tempo, per quanto si possa correre.
Tutto inutile. La sera del 9 ottobre 1963, alle ore 22 e 39, dal Monte Toc si stacca una frana che non può lasciare scampo: oltre due chilometri quadrati di montagna si riversano nell’invaso, 260 milioni di metri cubi di terra si tuffano nel bacino con una velocità superiore ai 20 metri al secondo. Non c’è nulla da fare. La diga resiste, le strutture tengono, ma l’ondata che nasce nel giro di pochi secondi scavalca il bordo, si getta nella valle e prosegue la sua corsa. Decine e decine di milioni di metri cubi d’acqua distruggono tutto quello che incontrano, annullano Longarone.
In pochi minuti la tragedia è conclusa: non ci sono più strade, non c’è più la ferrovia, non ci sono più le linee di comunicazione perché telefono e telegrafo sono stati inghottiti dalla furia delle acque. Sono scomparsi gli animali, insieme ai campi coltivati. Su tutto si stende una pesante coperta di fango.
E sotto quella tragica coperta 1909 persone: uomini, donne, vecchi e bambini. Le vittime che ancora oggi, a 52 anni di distanza, non è stato possibile contare con precisione assoluta.
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