Italia

Il valore di un «mito» diventato anche industria

  • Abbonati
  • Accedi
il marchio del cavallino e la sua storia

Il valore di un «mito» diventato anche industria

Da Maranello a Torino. Fino a New York e Detroit. Ieri Enzo Ferrari e Gianni Agnelli. Oggi Sergio Marchionne e John Elkann. E la quotazione a Wall Street. Allora, nel 1969, l’acquisizione da parte della Fiat del 50% della Ferrari, necessaria per sviluppare l’attività industriale.

Ecco, nel racconto del Drake contenuto nell’autobiografia “Le briglie del successo”, il colloquio decisivo con l’Avvocato. È il 18 giugno 1969. Ottavo piano di Corso Marconi, a Torino. «“Ferrari, sono qui che l’ascolto”, mi disse, col suo tratto elegantemente sicuro, il presidente della Fiat. Parlai lungamente. Non mi interruppe. Dissi il mio ieri, il mio oggi, il domani della fabbrica e potei esporre, come non mai, fino in fondo il mio pensiero. Poi parlò Agnelli. Più giovane di me di oltre vent’anni, ne sentivo la forza dell’uomo moderno, del politico e diplomatico negli affari, del vivace e sintetico osservatore. Le sue domande mi giungevano brevi, precise sull’argomento, da uomo che vuole conoscere, che desidera intendersi. Alla fine, fece entrare i suoi collaboratori e concluse: “Beh, Ferrari, è vero che questo accordo si poteva fare anche prima? Signori – ripeté ai suoi – forse abbiamo perduto del tempo. Adesso bisogna riguadagnarlo”».

Sono passati quarantasei anni. Ma è in quell’incontro fra due personaggi centrali del Novecento italiano che si devono ritrovare le ragioni di una alleanza che, senza diventare simbiosi, ha segnato la storia industriale e sportiva, estetica e popolare del nostro Paese. Un incontro fra due personalità. E, appunto, una partnership strategica – non solo a livello di capitale, ma anche di tecnologie e di professionalità – fra due imprese complementari nella loro diversità: il grande gruppo fordista, che fino agli anni Ottanta nell’economia italiana pesa per il 3% sul Pil italiano e nella politica e nella società ha una smisurata influenza, e la “piccola” scuderia – fattasi anche fabbrica atelier – che con le sue corse sui circuiti internazionali e con le sue fuoriserie sulle strade regala agli italiani – a tutti, senza distinzione di classe o di censo – una emozione e una vocazione alla bellezza così intense da fare diventare il Cavallino Rampante una delle materie di cui sono fatti i loro sogni. Da allora, negli anni Settanta e Ottanta alla Ferrari di Enzo Ferrari le cose funzionano.

L’aura è alimentata dal furore dei campionati di Formula Uno, con il titolo piloti vinto nel 1975 e nel 1977 da Niki Lauda e nel 1979 da Jody Scheckter e con il titolo costruttori ottenuto nel 1975 e nel 1976, nel 1977 e nel 1979, nel 1982 e nel 1983. Sotto il profilo industriale, in quei due decenni, sono fatti grossi investimenti nelle linee di produzione. Viene costruito il circuito di Fiorano. Il Drake conserva intatto il suo potere e il suo carisma. La “piccola” fabbrica di Maranello cresce, restando però sempre dentro un perimetro dimensionale che ne consenta la dimensione quasi artigianale, il controllo ossessivo della qualità, la costruzione di rapporti strettissimi con fornitori che stanno nell’arco di pochi chilometri. Quasi ogni anno è proposto sul mercato un esemplare con i tratti dell’icona: per esempio, nel 1978 la 308, nel 1984 la Testarossa, nel 1987 la F40.

Torino rispetta Maranello. Non ha atteggiamenti egemonici, che suonerebbero insopportabili per un uomo della tempra di Enzo Ferrari. Ferrari nella sua autobiografia riconosce il ruolo storico della Fiat («la Fiat è diventata la Fiat principalmente per il valore degli uomini che l’hanno formata e guidata») e ne apprezza il contributo, come socio: «L’appoggio della Fiat – scrive - mi dava un senso di fiducia, nello stesso tempo ero lieto se la Ferrari poteva fare qualche minuscola cosa per la grande fabbrica. In ogni caso, il travaso di esperienze tecniche non poteva tradursi che in un vantaggio».

È allora che si forma il calco industriale e organizzativo di lungo periodo della Ferrari: la piccola taglia degli impianti produttivi, i prodotti con un obiettivo di qualità eccelsa, la clientela super-selezionata che acquista una macchina e, insieme, un preciso senso delle cose. È il medesimo profilo che si trova nei dossier e nei report stilati, in queste settimane, dai banchieri d’affari e dagli analisti alle prese con la quotazione di Ferrari: margini di guadagno da lusso estremo, dimensione manifatturiera necessariamente contenuta, numero di auto programmato (e centellinato), nessuna indulgenza con ogni tentazione di innescare processi imitativi della Porsche che snaturerebbero l’eccezionalità di Maranello.

Il 14 agosto 1988, a 90 anni, muore Enzo Ferrari. Nel 1991, Luca Cordero di Montezemolo va ai vertici della Ferrari. Montezemolo, espressione della cerchia ristretta intorno agli Agnelli, riesce a innescare un meccanismo virtuoso fra la componente industrial-commerciale e quella agonistico-sportiva, tornando nel 1999 ad ottenere il titolo piloti con Michael Schumacher, che si sarebbe riconfermato fino al 2004. Tutto questo in una particolare distonia con la casa madre, che da tempo sta sperimentando la sua peggiore crisi, fino all’arrivo nel 2004 di Sergio Marchionne.

In una traiettoria della storia allo stesso tempo fantasiosa e ipercontrollata – alla Juan Manuel Fangio, per intenderci - adesso i destini di Torino e di Maranello sembrano unirsi e insieme divergere. Ferrari sarà quotata a Wall Street. Gli Agnelli intendono conservarla come uno dei principali investimenti di Exor. Fca deve scrivere il suo destino definitivo, che forse si chiama Ipo sulla General Motors. E, fra l’Emilia e il Midwest, si staglia ancora nitida la figura di Enzo Ferrari, che così Enzo Biagi descriveva nella biografia pubblicata da Rizzoli nel 1980: «Mi sembra uno di quei personaggi del West, avventurosi, forti, prepotenti, drammatici, che allevavano bestiame, costruivano ferrovie, scoprivano il petrolio, e portavano in sé, fino all’epilogo, visioni di conquiste e struggenti passioni».

Da Maranello a Torino, da New York a Detroit, ogni cosa cambia, ma tutto si tiene.