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Vorrei un lavoro, non lo cerco: perché l'Italia è ancora…

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OCCUPAZIONE

Vorrei un lavoro, non lo cerco: perché l'Italia è ancora il paese più “scoraggiato” d'Europa

Vorrei un impiego, ma «comunque non mi assumono». E se non mi assumono, non cerco. È il cortocircuito che consegna all'Italia il primato su scala europea di «persone disponibili a lavorare ma non in ricerca». Cioè, gli scoraggiati: tasso del 13% sulla forza lavoro complessiva, equivalente a tre volte tanto la media dell'Europa a 28 (3,7%) e dell'Euro-zona (4,2%). L'indicatore rientra nelle cosiddette forze di lavoro potenziali, le sotto-categorie introdotte dall'Eurostat nel 2011 per integrare il quadro fornito dalla triade occupati-disoccupati-inattivi. Il suo complemento naturale sono le «persone che cercano lavoro ma non sono ancora disponibili», insieme che include – ad esempio – gli studenti a caccia di un contratto ancora prima della discussione finale.

In Italia 10 volte più scoraggiati della Germania
Alcuni diluiscono gli scoraggiati negli inattivi tout-court. Ma la sfumatura è più sottile e, come nota proprio Eurostat, fa emergere «questioni strutturali» che sfuggono agli indicatori canonici. Essere «disponibili ma non in ricerca» significa aver abbandonato le speranze perché la domanda non è compatibile con le proprie competenze – o non c'è domanda in assoluto. Un mismatch al contrario che assume, in Italia, dimensioni amplificate rispetto al resto d'Europa: il 13% della Penisola è pari al quintuplo della media registrata in Francia (2,4%) e ad addirittura 10 volte tanto quella della Germania (1,2%).
Il bilancio non è neppure ai suoi massimi, se si considera il 14,2% raggiunto nel terzo trimestre del 2014. Ma resta il fatto che la dinamica, alimentata dalla crisi, ha viaggiato sempre al rialzo con un aumento del +4% dal 2005 ad oggi e del +0,4% solo nell'ultimo anno, contro il trend stazionario di Europa a 28 (-0.1%) e paesi dell'Euro-zona (variazione nulla).

I più penalizzati: donne e Mezzogiorno. Record in Sicilia
Lo spaccato interno, fotografato dai dati Istat, va nel profondo dei dislivelli di genere e provenienza territoriale. Per quanto riguarda il gender gap, basti notare che il 13% complessivo del secondo trimestre 2015 è dato dalla media tra l'8,9% maschile e il 18,7% femminile. Lo sbalzo si fa ancora più grave nel confronto tra regioni: gli scoraggiati del nord si fermano al 6,2%, contro l'8,7% del centro e soprattutto il 27,7% del mezzogiorno. Ed è proprio al Sud che la penalizzazione delle donne esplode con più evidenza: ha rinunciato alla ricerca il 43,4% delle donne residenti nel meridione, contro il “solo” 18,2% degli uomini. Su scala regionale, il picco è raggiunto dalla Sicilia: 32,2%, con una quota femminile pari a oltre la metà (51,3%).

Secondo Fabio Sdogati, ordinario di Economia internazionale al Politecnico di Milano, il 13% raggiunto dall'Italia è un dato «strabiliante per gravità». Il meccanismo è analogo a quello dei talenti in fuga, i giovani reclutati all'estero: alcuni partono dopo un'offerta allettante, altri si espongono al dumping pur di sfuggire al vuoto di domanda nel paese d'origine. Il nostro: «Per dirla in maniera semplice: è inutile insistere su preparazione e specializzazione se poi non c'è una domanda adatta ad assorbire le competenze che si sono formate. È la stessa cosa che diciamo dei giovani in fuga: la scuola li forma bene, poi li si fa scappare perché non c'è un apparato pronto ad assorbirli».

Una ricerca del Center for European Policy Studies, già segnalata dal Sole 24 Ore, rimarcava il paradosso di un sistema che ha un bisogno vitale di laureati in area scientifica ma non riesce a offrire condizioni stipendiali che pareggino – o “addirittura” valorizzino – l'investimento degli anni di studio. Soprattutto nel caso delle donne, non a caso più rappresentate nelle forze lavoro potenziali dell'Eurostat. Ma questo basta a giustificare la rinuncia alla ricerca attiva dell'impiego, in un sistema dove il “vecchio” tasso di disoccupazione non scende sotto al 40%? «Ci sono laureati che devono togliere qualifiche dal curriculum perché si cercano figure più basiche. Il punto è che non c'è domanda di figure ad alta produttività».

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