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La «risurrezione» di Milano

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il commento

La «risurrezione» di Milano

Il ricordo è ancora intatto nella mia memoria perché il tempo trascorso non l’ha in nulla appannato. Era il 23 settembre 2007 e alle 11 di una domenica autunnale assolata celebravo nella basilica di S. Ambrogio la Messa solenne col coro e l’orchestra della Scala che eseguivano la Messa di Stravinskij. Quei momenti sacri eppure anche “laici” (iniziavano i concerti del MI-TO) erano anche il mio addio a Milano, la città nella quale avevo vissuto per un ventennio come prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana. Quella sera stessa, infatti, sarei approdato a Roma su invito di papa Benedetto XVI per quest’ultima tappa della mia vita.

Ho voluto evocare un dato così personale perché in quella celebrazione si raggrumavano in me tutte le vicende, le esperienze, le emozioni che avevano fatto di Milano – come ho spesso ripetuto – la mia Itaca che non si può schiodare dal cuore. Nella città di Ambrogio, infatti, avevo intessuto una trama di relazioni, di amicizie, di conoscenze, di affetti che non si è mai smagliata e che continua a ramificarsi anche ora che sono lontano e che conduco una vita nomadica per il mondo a causa del mio attuale incarico legato alla S. Sede.

Eppure, piantato in un orizzonte così amato e dal quale ero stato generosamente riamato, non avevo esitato a esprimere a più riprese, anche pubblicamente, un mio disappunto, venato di delusione e di rammarico. Infatti, anche dopo la degenerazione della “Milano da bere” e della relativa fase giudiziaria di “Mani pulite”, la città – nonostante le sue straordinarie potenzialità – non si era scossa, tentando una risurrezione, come era invece accaduto nel glorioso dopoguerra. Si era ingrigita e impigrita, il suo pur mirabile tessuto culturale, sociale, economico si era quasi rinsecchito. Credo che tutti, anche il “laico” più severo, debba riconoscere che in quegli anni il fremito più significativo che scuoteva coscienze, istituzioni e l’intera cittadinanza proveniva da una voce religiosa, quella del cardinale Carlo M. Martini. Forse proprio per questo – a differenza di altre metropoli – il centro topografico urbano da cui si dipartono le varie radiali è il Duomo, «quell’ottava meraviglia» del mondo, come faceva dire a Renzo il Manzoni del c. XI dei Promessi Sposi.

Da quel 2007 ogni anno sono tornato tante volte a Milano e ho assistito, così, con stupore progressivo a quella risurrezione che il mio amore per la città sognava (infatti si critica ciò che si ama, non ciò che risulta indifferente). Non è solo il suggestivo skyline dei nuovi grattacieli, non è soltanto la lunga lista degli eventi, non è neppure la nascita di molte nuove istituzioni culturali e sociali. È soprattutto un’atmosfera che permea tutta la comunità, che induce vitalità, che muove i cittadini a difesa della loro eredità storica e sociale, che allarga ancora le braccia nell’accoglienza degli stranieri, che rende sensibili i cuori per l’emarginazione, che affolla mostre e concerti.

Papa Francesco nel 2013 mi ha nominato Commissario Generale del Padiglione della S. Sede all’Expo. Ho, così, vissuto dall’interno quanto siano state sorprendenti le capacità di Milano nell’irradiare la propria creatività in questo panorama di presenze provenienti da ogni regione del nostro pianeta. Nell’Italia, che ora sta anch’essa procedendo con più fiducia e passione dopo un inverno non solo economico globale, Milano ritorna a offrire – se vogliamo usare una metafora evangelica – il suo lievito e il suo sale. Anzi, come scriveva domenica scorsa su questo giornale il presidente Mattarella, «la dimensione europea è parte della nostra stessa identità nazionale e Milano è riuscita a cogliere questo aspetto prima di altri, contaminando culture, innovando, aprendosi ed accogliendo, costruendo reti e saperi».

Certo, in agguato ci sono sempre la corruzione, la violenza, la chiusura egoista, ma anche l’inerzia, la miopia culturale, l’indifferenza, la volgarità, la paura, la lamentazione. Forse, però, all’interno di questa tentazione a rifugiarci nella nebbia grigia (per altro ormai assente a livello climatico da Milano) della conservazione fine a se stessa, c’è ora la spina benefica nel fianco di un fervore e di un impegno che sono stati sempre il vero stemma civico e spirituale della metropoli ambrosiana. Non per nulla già nel 1288 lo scrittore milanese Bonvesin de la Riva, scrivendo il suo De magnalibus urbis Mediolani, un trattato sullo splendore monumentale, civile e religioso di Milano – con sprezzo dell’etimologia – tentava di raccordare il nome della città al verbo latino mirari, considerandola una realtà che merita “ammirazione”. È quello che un suo cittadino che l’ama pur da lontano continuerà ad augurarle di essere.

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