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I giovani islamici in piazza a Milano: «Noi italiani, l'Isis…

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«not in my name»

I giovani islamici in piazza a Milano: «Noi italiani, l'Isis non c'entra nulla con noi»

Selma ha 15 anni, gli occhiali, il velo annodato sopra la giacca. Ci spiega di essere in piazza perché lo deve al suo Paese. L'Italia: «Sono italiana e lombarda, la mia città è Lecco. Cosa ci faccio qui? Per spiegare al mio paese che non c'entriamo nulla con l'Isis, che nel nostro Corano non c'è scritto da nessuna parte di uccidere qualcuno. Tanto meno a nostro nome». La sua è una delle centinaia di voci che si sono appena riunite a San Babila, nel cuore di Milano, per il presidio Not in my name voluto dal Caim (Coordinamento associazioni islamiche di Milano e Monza-Brianza), Psm (Partecipazione spiritualità musulmana), Giovani Musulmani e una costellazione di oltre 80 sigle da tutta la regione. Il maxischermo che sovrasta la folla trasmette, a intermittenza, il logo di Je suis Paris con la torre Eiffel stilizzata e lo slogan ereditato dall'eccidio della redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo. L'incubo del 13 novembre è nell'aria. Ma oggi si parla di Italia e di giovani italiani, perché è quella la carta di identità dei ragazzi che sfilano tra striscioni, bandiere e parecchi flash.

«Qui per far capire chi siamo». In Italia 6 su 10 hanno un “parere negativo” sull'Islam (Pew)
Alla vigilia si era parlato di 3mila partecipanti. Il calcolo finale potrebbe essere meno generoso e c'è chi è «un po' deluso dalla risposta della città» . Ma i giovani ci sono. E si fanno vedere. Marianne, 17 anni, studia in istituto tecnico a indirizzo chimico di Brescia. Non è nata in Italia ma vive qui da quando aveva due anni. «Un po' di tempo, direi. Però ho deciso di partecipare per fare capire chi sono, cosa dice la mia religione. La mia religione non ha niente a che fare con l'Isis».

Solo la comunità islamica in Lombardia potrebbe contare, secondo alcune stime, un milione di persone. I dati più recenti del Pew Research Institute di Washington parlano di una popolazione complessiva di circa 2,2 milioni di fedeli in Italia: il 3,7% della popolazione del 2010, contro il 4,8% del Regno Unito (2.960.000), il 7,5% della Francia (4.710.000) e il 5,8% della Germania (dove però il valore assoluto è il più alto d'Europa: 4.760.000).
Ma proprio l'Italia, secondo il Global Attitudes Survey 2014 di Pew, è il paese Ue dove si registra la percentuale più elevata di «pareri negativi» sulla religione islamica. Il 63% degli intervistati si è espresso in termini sfavorevoli e il 23% in termini favorevoli, un divario molto più netto di quello che si registra in Grecia (53% e 43%) e Polonia (50% e 32%, più varie gradazioni intermedie). In Germania, la quota di pareri “sfavorevoli” non supera il 33%, in Gran Bretagna e Francia si oscilla tra il 26 e il 27%.

Marianne continua a vivere la sua età come tutti i coetanei. Non ha mai percepito ostilità per il velo, lo hijab, che la avvolge mentre parla senza esitazioni della «civiltà araba che esisteva già durante il buio del medioevo» e le sue eredità sparse nel sud Europa. È una delle uniche tre ragazze in una classe tutta maschile, ma le uniche incomprensioni risalgono alle scuole medie. Oggi, a un passo dalla maggiore età, i pregiudizi non la sfiorano più. Si «trova benissimo» nella sua classe di scuole superiori e i rapporti non sono filtrati dai pregiudizi. «Forse i miei compagni di tempo fa non erano molto aperti, ma forse non ero troppo aperta neppure io. Non spiegavo perché portavo il velo, la mia umanità. Sono qui anche per spiegare questo».

«Cosa ci aspettiamo? Incentivi alla conoscenza»
A «essere qui» non sono solo i giovani islamici. C'è Sofia, 21enne iscritta in Cattolica, che è scesa a San Babila «per ascoltare davvero» quello che ha solo frequentato a lezione. Poi diverse famiglie, studenti, i volantini con il simbolo della pace attraversato dalla torre Eiffel che è diventato il simbolo del 13 novembre. E un cartello incollato a una della colonne delle galleria, «Più cultura, meno paura». Ylias, 19enne di Bergamo, sta finendo l'ultimo anno all'Istituto Cesare Pesenti di Bergamo. Per lui, essere a Milano «significa far capire che l'Islam non è quello che abbiamo visto in Tv. Non si può generalizzare per tutto. Ci basterebbe far capire che esistono musulmani buoni e musulmani criminali, come in tutto» dice. Cosa si aspetta dal suo paese? «Bisogna cercare di conoscere la religione, incentivare la gente a capire come siamo fatti noi. Se vai un po' più nel profondo, hai meno paura».

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