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Boeri: i 35enni in pensione a 70 anni con un assegno più leggero del…

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PREVIDENZA

Boeri: i 35enni in pensione a 70 anni con un assegno più leggero del 25%

Ieri il presidente dell’Inps, Tito Boeri, ha illustrato un’analisi campionaria effettuata su 5mila lavoratori nati nel 1980 e con una prospettiva di pensionamento nel 2050. Ne risulta che chi oggi ha 35 anni prenderà nell’intera vita pensionistica in media un importo complessivo di circa il 25% inferiore a quella della generazione precedente (i nati intorno al 1945) pur lavorando fino, appunto, a 70 anni. L’impatto sull’assegno è naturalmente amplificato a seconda degli scenari considerati, con un appiattimento degli assegni verso il basso in caso di “buchi contributivi” di 10 anni o di una crescita del Pil in termini reali dell’1% anziché dell’1,5% considerato nello scenario base della Ragioneria generale.

Quando si analizzano gli importi di pensione - ha spiegato Boeri nel corso della presentazione del Rapporto Ocse - «bisogna tener conto anche da quando questi assegni sono stati percepiti». Se si guarda alla distribuzione per età alla decorrenza delle pensioni dirette del Fondo lavoratori dipendenti si scopre che tre quarti sono state percepite prima dei 60 anni. Secondo le proiezioni Inps per i lavoratori classe 1980 solo il 38,67% la prenderà prima dell’età di vecchiaia, contro il 78,36% di pensionati anticipati della classe 1945. Insomma, sarà più basso il trasferimento pensionistico complessivo dei lavoratori attuali, che godranno di un tasso di sostituzione medio intorno al 62% (vicino al 63% della media Ocse odierna ma lontano dall’80% circa delle pensioni oggi vigenti in Italia). Anche nell’analisi di Boeri un focus è stato dedicato alla differenza di reddito tra lavoratori e pensionati: negli ultimi cinque anni la distanza media s’è ristretta dai 5.760 euro del 2007 ai 4.320 euro del 2013. Ed è stato fatto notare che i redditi dei pensionati che hanno retto meglio all’impoverimento degli ultimi anni sono in molti casi integrati da altre voci (su 15 milioni di pensionati 1 milione ha un reddito prevalente diverso dalla pensione).

Analoghe le conclusioni(e le proposte di policy) uscite dal report Ocse e dall’indagine Inps: per ridurre il rischio di insostenibilità sociale del nostro modello va nettamente aumentata la partecipazione lavorativa e vanno assicurate carriere lunghe e continuative. Ma serve anche una maggiore flessibilità di scelta tra tempo di lavoro e vita familiare. Infine occorre mettere in campo misure di tutela di base del reddito più ampie per chi perderà il lavoro, forse anche ripensando i limiti di accesso alla pensione anticipata (serve un assegno almeno pari a 2,8 volte il minimo oltre ai requisiti di età e contribuzione) o di vecchiaia (1,5 volte il minimo).

Una donna che entra nel mercato del lavoro a 20 anni e subisce un’interruzione di carriera di 5 anni prima della pensione di vecchiaia rischia di ritrovarsi con una rendita previdenziale ridotta del 10 per cento. Se la stessa donna inizia a lavorare a 25 anni, con lo stesso “buco contributivo” può subire un taglio sull’assegno finale fino al 19 per cento. Naturalmente, sempre ammesso che dopo l’interruzione la carriera riparta dove s’era fermata e col medesimo salario. Con questa simulazione relativamente ottimistica ieri il direttore per l’Occupazione il Lavoro e gli Affari sociali dell’Ocse, Stefano Scarpetta, ha presentato a Roma la sesta edizione del report biennale Pension at a Glance 2015. Un rapporto che oltre al consueto confronto sulle ultime modifiche alle regulation previdenziali dei 34 paesi aderenti all’organizzazione parigina (esteso a Argentina, Brasile, Russia, Cina, India, Indonesia, Arabia Saudita e Sud Africa) ha offerto quest’anno un focus sui trattamenti minimi e, appunto, sugli effetti di carriere brevi o interrotte sui futuri diritti pensionistici.

Secondo l’analisi Ocse, cui ha lavorato anche la ricercatrice Anna Cristina d’Addio, il sistema contributivo nozionale italiano (Ndc) applicato pro-quota a tutti i lavoratori a partire dal 2012 grazie alla riforma Fornero (viceversa il passaggio all’Ndc per tutti sarebbe arrivato nel 2030), produce una delle maggiori riduzioni della pensione futura a seguito di un “buco retributivo” quinquennale (per disoccupazione o per la cura dei figli) mentre in un terzo dei Paesi analizzati lo stesso stop non ha alcun impatto sulla pensione finale. Un ingresso ritardato di 5 anni in Italia produce una pensione ridotta di oltre il triplo rispetto alla media Ocse. Inoltre in Italia, con il superamento delle pensioni minime, le prestazioni assistenziali assicurate dopo i 65 anni arrivano al 19% della retribuzione media contro il 22% della media Ocse.

Il nostro modello previdenziale dopo le ultime riforme che ne hanno garantito la “messa in sicurezza” dal punto di vista della sostenibilità finanziaria (entro il 2060 è stimato un calo di 2 punti di Pil della spesa contro il -0,1% previsto per la media Ue) resta dunque esposto a un forte rischio di sostenibilità sociale. Soprattutto in prospettiva, visto che i “rischi povertà” negli ultimi decenni si sono sempre più trasferiti sulle giovani generazioni, siano esse attive o meno (un quarto dei giovani di età compresa tra 16 e 29 né lavora, né è in cerca di un lavoro e neppure è in formazione). In Italia le carriere lavorative sono più corte delle medie Ue e Ocse, più elevate le età di ingresso, mentre l’età media effettiva di pensionamento era ancora ferma, nel 2014, a 61,4 anni per gli uomini e 61,1 per le donne (a fronte di un’età legale che converge a 67 anni nel 2019 per entrambi i sessi).

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