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Partecipate, dal riassetto «sì» al fallimento

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LA RIPRESA DIFFICILE

Partecipate, dal riassetto «sì» al fallimento

Le società partecipate dalla pubblica amministrazione potranno fallire come tutte le altre aziende, e seguiranno le regole ordinarie nate con il regio decreto del 1942 (il numero 267) e poi modificate dalle riforme successive.

In fatto di aziende pubbliche, il decreto attuativo della riforma Madia atteso in consiglio dei ministri per metà gennaio (se saranno pronti anche gli altri testi del “pacchetto”) interverrà a chiarire per legge un tema che finora è stato lasciato alla giurisprudenza, con vicende alterne. Di volta in volta, infatti, i giudici si sono espressi in maniera diversa sulla possibilità di fallimento delle società pubbliche, spesso negata sulla base dell’esigenza di tutelare la “continuità” del servizio pubblico. Questa linea sembra la più fortunata nei tribunali, come mostra da ultimo il caso della Risco Pescara, la società locale di riscossione di proprietà di un gruppo di Comuni abruzzesi, il cui fallimento è stato revocato qualche mese fa dalla Corte d’appello dell’Aquila. Per quel che riguarda l’in house, poi, il filone del «no» al fallimento delle società poggia soprattutto su una sentenza della Cassazione a sezioni unite (la 26283/2013), secondo cui le società in house hanno solo l’aspetto esteriore dell’azienda, ma sono nella sostanza articolazioni della Pa proprietaria.

Il chiarimento per legge, se sarà confermato nei testi definitivi del decreto, servirà quindi a fissare una volta per tutte la questione, con conseguenze importanti sulle prospettive dei privati titolari di crediti nei confronti di aziende pubbliche con il fiato corto.

La fallibilità, comunque, è solo uno degli aspetti di cui si dovrà occupare il decreto, chiamato ad avviare la traduzione pratica dello slogan «da 8mila a mille» sulla riduzione delle partecipate pubbliche finora confinato alle slide di convegni e conferenze stampa. Da questo punto di vista, la strada appare ancora in salita, perché occorre fare i conti con l’autonomia delle amministrazioni locali e soprattutto con le possibili ricadute occupazionali di una razionalizzazione delle società: proprio questo problema, del resto, ha cancellato il tentativo del decreto Monti che imponeva la privatizzazione o la chiusura delle società strumentali, quelle che lavorano quasi solo per la pubblica amministrazione che le ha create.

Da questo punto di vista, l’idea finora scritta nelle bozze punta su una replica annuale obbligatoria dei «piani di razionalizzazione», quelli che Regioni, enti locali, università e autorità portuali hanno dovuto scrivere per la prima volta nel 2015 sulla base delle regole introdotte dalla manovra dell’anno scorso. È una via efficace per sfoltire davvero la «giungla» delle partecipate evocata dal piano Cottarelli? Difficile prevederlo, anche se i primi bilanci sui risultati di quest’anno si avranno a primavera, quando le sezioni regionali della Corte dei conti dovranno esaminare i risultati dei piani nelle relazioni che gli enti devono inviare entro il 31 marzo. Molto, comunque, dipenderà dal carattere vincolante di questi piani e dalle sanzioni che ne accompagneranno la mancata attuazione, tutti aspetti che finora non sono riusciti a entrare nelle norme.

Sempre sull’in house, dovrebbe tornare in campo l’arbitro, sotto la veste della Corte dei conti, chiamato a decidere volta per volta se la gestione diretta è legittima oppure ostacola lo sviluppo della concorrenza. Il legame con le regole di mercato aveva impegnato in passato l’Antitrust, nell’ambito dei tentativi di liberalizzazione che poi sono stati travolti dai referendum sull’«acqua pubblica».

Proprio sull’acqua, infine, va segnalato il varo da parte dell’Authority di settore dei parametri per le tariffe del 2016-2019, accompagnati dagli “standard minimi” sulla qualità dei servizi che imporranno limiti di tempo a tutti gli interventi dei gestori, dall’attivazione della fornitura alle risposte dei call center, accompagnando il tutto con un sistema di premi e di sanzioni. Per Utilitalia, la federazione che unisce le aziende di servizi pubblici, gli standard sono «un passo in avanti» ma i nuovi parametri per le tariffe «non permettono di realizzare l’aumento degli investimenti su reti e infrastrutture idriche di cui il Paese ha drammaticamente bisogno».

gianni.trovati@ilsole24ore.com