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Messina Denaro anima della «supercosa» di Riina

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Messina Denaro anima della «supercosa» di Riina

  • –Roberto Galullo

roma

Quando c’è da fare «cose più grosse» le mafie fanno sempre riferimento ad un gruppo di “riservati”. Di loro – e solo di loro – ci si può fidare. È quanto la Procura di Caltanissetta ha parzialmente ricostruito (pm facente funzioni Lia Sava e aggiunto Gabriele Paci, che hanno delegato le indagini alla Dia guidata dal colonnello Giuseppe Pisano) e il Gip Alessandra Bonaventura Giunta ha certificato, nel provvedimento che individua Matteo Messina Denaro come mandante delle stragi di Capaci e via D’Amelio.

A Messina Denaro è contestato il concorso morale, per aver aderito al piano stragista e alla sua attuazione, partecipando a un «gruppo riservato» creato da Totò Riina e alla sue dirette dipendenze. Un gruppo di “riservati” disposto a tutto pur di uccidere i nemici giurati di Cosa nostra: in primis Giovanni Falcone e Paolo Borsellino di cui, dopo l’assassinio del giudice, veniva temuta l’ascesa alla Procura nazionale antimafia.

Una “supercosa” composta da due gruppi di pretoriani di Riina che non doveva conoscere le mosse dell’altro. Di uno – oltre a Giuseppe Graviano, Fifetto Cannella, Lorenzo Tinnirello, Vincenzo Sinacori e Francesco Geraci – faceva parte proprio Messina Denaro. Fu questo gruppo – secondo la ricostruzione di investigatori e inquirenti coadiuvato ad un certo punto dal clan camorristico Nuvoletta – a partecipare alla missione romana (dal 24 febbraio al 5 marzo ’92, un mese dopo la sentenza nel maxiprocesso emessa il 30 gennaio) impegnata a uccidere Falcone o, in subordine, l’allora ministro Claudio Martelli o personaggi invisi come Maurizio Costanzo, Enzo Biagi, Andrea Barbato, Michele Santoro e Pippo Baudo. Una “supercosa” che era il sintomo dell’ansia parossistica con la quale Riina perseguiva l’eliminazione di Falcone, strettamente collegata alla strategia di guerra allo Stato.

La ”supercosa”, come raccontò il pentito Vincenzo Sinacori il 25 maggio 1997, doveva essere la risposta alla “super procura” antimafia e doveva servire per «chiudere, nel senso di chiudere i discorsi, saperli sempre meno persone… sì era un gruppo che dipendeva solo ed esclusivamente da Riina. Era una super Cosa dentro Cosa nostra». In un precedente interrogatorio del 14 febbraio 1997, aveva dichiarato che «la struttura prevedeva la costituzione di gruppi molto ristretti i cui componenti non avevano alcun obbligo di informare delle loro azioni i rispettivi rappresentanti e capi mandamento».

La trasferta romana – dove il “comandante” Messina Denaro aveva come braccio destro il pregiudicato calabrese Antonio Scarano – e alla quale la Corte d’Assise di appello di Catania, con la sentenza emessa il 21 aprile 2006 diede una versione “minimalista” che la Procura di Caltanissetta invece valorizza, non raggiunse l’obiettivo primario. Riina stava però lavorando su due «cantieri» di preparazione alla guerra: uno a Roma e l’altro a Palermo, dove poi Falcone, la moglie e la scorta trovarono la morte. Così come, poco dopo, accadde per Borsellino.

.Guardie o Ladri

roberto.galullo.blog.ilsole24ore.com

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